giovedì 23 dicembre 2010

Caserta, tra Cementir e futuro


La Cementir s.r.l. ha ottenuto il permesso di cavare per altri venti anni, dopo oltre trenta anni di presenza sul territorio. Il 14 dicembre u.s., la ventesima conferenza di servizi presso il Genio Civile di Caserta è terminata con una pronuncia di parere favorevole al progetto di “coltivazione e recupero unitario per la prosecuzione dell’attività estrattiva” in località S.Michele, sui Monti Tifatini ricadenti nel Comune di Maddaloni. Dopo oltre due anni di battaglie amministrative tra le associazioni ambientaliste e la Cementir di Caltagirone, è stato accordato a quest’ultima il permesso di cavare anche il lato orientale del monte di S.Michele, avendone esaurito ormai la facciata occidentale. I cittadini di Maddaloni e delle frazioni di Tredici, S.Clemente e Centurano del Comune di Caserta, dovranno convivere e probabilmente morire con le polveri del cementificio, industria insalubre di prima categoria. Il paesaggio, più simile ad una groviera che ad un’area collinare, è così definitivamente condannato, e i progetti di riqualifica e bonifica con lui.



L’approvazione di un progetto “ricadente in Area di Crisi, funzionale alla riqualificazione di un ampio contesto territoriale”, suona come una beffa ai cittadini che si sono battuti contro l’ampliamento. Sebbene dal progetto originale siano state stralciate le porzioni di terreno percorse dai vincoli di rimboschimento, di dissesto idrogeologico e di incendi, sono risultati decisivi il silenzio della Soprintendenza e il parere di compatibilità ambientale della Regione Campania.

La prima ha fatto valere il silenzio-assenso in merito al vincolo paesaggistico, sebbene la stessa Commissione integrata all’edilizia del Comune di Maddaloni avesse espresso parere negativo, ma non vincolante. Vincolo che sembrava più che giustificato dalla presenza dei Ponti della Valle, l’acquedotto vanvitelliano che porta acqua alla Reggia e che è inserito tra i beni Unesco. La seconda, tramite il Settore Tutela dell’Ambiente, ha espresso parere positivo nella sua Valutazione d’Impatto Ambientale contraddicendosi con quanto espresso nella precedente V.I.A. della più grande opera del territorio degli ultimi venti anni, ovvero il costruendo Policlinico universitario, che dista a soli 500 m dalle Cave. Nel 2004 infatti la stessa Regione pose come condizione sine qua non alla costruzione del Policlinico la chiusura e bonifica delle cave (che sarebbe dovuta avvenire già nel 2007).  

Poiché la politica ancora una volta si è dimostrata incapace di pianificare e programmare coerentemente le attività, il caso Cementir è diventato un caso politico solo nel momento in cui ci si è ricordati dell’incompatibilità con il futuro Policlinico. Già nei mesi scorsi la politica locale aveva espresso i suoi malumori. Il primo a prendere posizione era stato il sindaco di Caserta, Niccodemo Petteruti, il quale tramite un’apposita delibera del Consiglio Comunale aveva espresso il suo no alla prosecuzione dell’attività estrattiva. Poi è venuto il turno della Provincia che ha rivendicato il ruolo di “programmazione” del territorio pronunciandosi per un no all’ampliamento, ed infine l’ex-Vescovo di Caserta, Nogaro, aveva veementemente denunciato l’ampliamento, definendo le cave dei “gironi infernali” ed intimando i cittadini a ribellarsi.

Sebbene la Cementir sia riuscita a spuntarla sul versante amministrativo, tuttavia ora si apre la battaglia della politica.

Si fronteggiano da un lato gli uomini di Caltagirone e i Maddalonesi interessati, tra cui i lavoratori (circa un centinaio) difesi dal sindacato, o comprati da qualche pallida promessa di compensazione economica. Dall’altro lato gli ambientalisti, i comitati cittadini, ma soprattutto i sostenitori (e diretti interessati) del costruendo Policlinico che costerà 200 milioni di euro. Un’opera da cinquecento posti letto e cinquecento dipendenti, più un indotto stimato in altri 5000 posti di lavoro.


Non è un caso che politici e politicanti di tutti gli schieramenti abbiano urlato allo scandalo e cerchino ora di ricorrere ai ripari prima che sia troppo tardi. Nicola Caputo, presidente della Commissione trasparenza di palazzo S.Lucia, ha proposto un’interrogazione consiliare in merito; il leader della Cisl, Carmine Crisci, che ha seguito i lavori del Policlinico sin dall’inizio ritiene "che il discorso vada affrontato in maniera complessiva, bisogna capire se il territorio vuole [le cave] o no, analizzando tutti gli aspetti della questione, partendo da quello occupazionale"; ed infine Gennaro Oliviero (PSE) che dichiarandosi al fianco delle associazioni ambientaliste ha presentato un ordine del giorno per la revoca “di tutti gli atti posti in essere dalla Regione”. Lo stesso Oliviero, tuttavia, non dimentica di ricordare che il “Policlinico è in fase di completamento e rischierebbe di rimanere una cattedrale nel deserto”.


I cittadini, in realtà, sono rimasti inascoltati, e la politica è stata risvegliata solo dalla paura di perdere un’occasione di “sviluppo”, una torta più grande, come quella del Policlinico. La programmazione ancora una volta è stata sacrificata in nome degli interessi contingenti e non dell’interesse pubblico.

domenica 28 novembre 2010

L'artista secondo Camus, Discorsi di Svezia


"Personalmente, non posso vivere senza la mia arte. Ma non ho mai posto l'arte al di sopra di tutto. Se mi è necessario al contrario, è la cosa che non mi separa da nessuno e mi permette di vivere, così come sono, con tutti. Ai miei occhi l'arte non è una gioia solitaria. E' un mezzo per emozionare il più grande numero di uomini offrendogli un'immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie comuni. Obbliga quindi l'artista a non isolarsi; lo rimette alla verità più umile e universale. E colui che, sovente, ha scelto per il destino di artista perché si sentiva diverso, apprende presto che non nutrirà la sua arte, e la sua differenza, che confessando la sua somiglianza con tutti.
L'artista si forgia in questo perpetuo andirivieni tra e gli altri, a metà strada dalla bellezza che non può evitare e dalla comunità alla quale non può strapparsi. E' perché i veri artisti non disprezzano niente; si obbligano a comprendere invece di giudicare. E, se devono prendere un partito in questo mondo, non può che essere quello di una società dove, secondo le grandi parole di Nietzsche, non regnerà più il giudice, ma il creatore, che sia materiale o intellettuale".


Albert Camus, Discours de Suède,
Editions Gallimard, 1958 (traduzione mia)

mercoledì 17 novembre 2010

Cristo si è fermato ad Eboli, un metodo empatico



Cristo si è fermato ad Eboli è un libro dal contenuto antico e dal metodo ancora non superato. L'ho cercato dopo aver attraversato la Lucania bruciata dal sole, l'ho trovato per approfondire le impressioni nate dalle visioni del mondo perduto di De Seta, l'ho usato per riflettere su quanto già detto a partire da Orgosolo.

Mi convinco di aver preso il libro giusto dall'incipit della prima pagina dove Levi descrive il mondo che si appresta a rievocare: "un mondo serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte"(pag.1).

Emerge subito l'impressione di entrare in un mondo duro, in una società ferma e immobile sempre uguale a se stessa, avulsa dal resto del Mondo, che ignora cosa sia la Storia:

"Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile"(pag.2).

Un incipit che mi ricorda quello del film di De Seta, Banditi a Orgosolo, che ha reso con le immagini quello che Levi ha reso con la scrittura: catturare e descrivere mondi nascosti e sconosciuti che hanno rappresentato ai più la vera vita, per secoli. La differenza tra i due sta nelle sfumature che Levi riesce a trasmettere con maggiore attenzione grazie all'utilizzo della scrittura, rispetto alla poesia visiva di De Seta che richiede invece maggior attenzione dello spettatore. Infatti, le immagini sono talmente belle e poetiche, i gesti talmente veloci e sapienti, che potrebbero far dimenticare allo spettatore superficiale le condizioni di quella vita fatta di solitudine, di lotta e di rispetto per la natura, il sole cocente, la schiena a pezzi, la fame atavica, i calli alle mani:

"il loro tempo è misurato su quelle delle migrazioni stagionali, su quello della ricerca del pascolo, dell'acqua. L'anima di questi uomini è rimasta primitiva. Quello che è giusto per la loro legge, non lo è per quella del mondo moderno. Per loro contano solo i vincoli della famiglia, della comunità. Tutto il resto è incomprensibile, ostile. Anche lo Stato che è presente con i Carabinieri, le carceri".

Si presentano immediatamente i fattori che accomunano le civiltà contadine di Levi e di De Seta: la stessa ostilità per le istituzioni, lo Stato e i suoi metodi repressivi; la diversa concezione del tempo misurato dalla natura; l'esistenza di altre leggi e valori estranei al mondo moderno; l'intimo rapporto con la natura, in lotta e alla mercè di essa; i forti legami di comunità; la chiusura e la perenne immobilità. Condizioni che hanno contribuito a modellare da sempre una civiltà contadina che si è riprodotta similmente nelle diverse longitudini, fino a che la modernità non ha bussato alla porta. Civiltà e culture millenarie oggi andate in gran parte perdute.

Nel descrivere quel mondo contadino tramite la sua vita quotidiana, le vite particolari, gli usi, i paesaggi e la natura, Levi è utile oggi per mantenere fermi alcuni punti di quel mondo che seppur "magico" e affascinante era duro, spietato come la natura, fortemente umano. Ci serve oggi per non dimenticare da dove veniamo e dove vogliamo andare, per non dimenticare che la via della montagna è stata abbandonata per quella della città anche per andare a studiare, che la tecnologia ha risolto più problemi di quanti ne abbia creati, che è pericoloso e oscurantista guardare a modelli vecchi per risolvere problemi attuali e futuri, senza pensare al necessario adattamento, senza proiettarli nella realtà odierna.

Ma al di là del valore storico e letterario, il libro è attualissimo per il metodo empatico che sfruttando la prosa letteraria riesce a farci capire il senso di un'altra civiltà. Il senso che ha avuto un altro mondo.

Cristo si è fermato ad Eboli è un libro che ha superato la prova del tempo per la sua capacità di generare e vedere senso. Per l'abilità di Levi di raccontare una società, che è quella contadina, ma che sarebbe potuta essere qualsiasi altra in cui si entra in silenzio, con gli occhi aperti di meraviglia e con sincera partecipazione. Non un narratore neutrale, ma attore empatico con l'intento, e lo spessore, di raccontare la vita partendo dalle singole vite.

E' uno sporcarsi le mani e molto di più, è un vivere, con-vivere, in una famiglia, un luogo, una città, un paese. Non è il reportage fugace, ma il desiderio di capire e di condividere innanzitutto. Poi eventualmente raccontare. Ma il primo bisogno è quello di cibarsi di altre vite per curiosità intellettuale e non per ambizione letteraria.

Nel lavoro di Levi la ricerca della obiettività deriva proprio dal rapporto empatico che si instaura con i contadini, in grado di do(mi)nare la molteplicità di punti di vista esistenti, raccontare a fondo tutti gli aspetti, viaggiarci dentro, per avere un set di conoscenze tale da far emergere dai particolari il senso, il percorso, i meccanismi, i tracciati delle interazioni del mondo. Non mettere in risalto un singolare punto di vista sul mondo ma capire l'interazione di tutti i punti di vista tra loro.

Come dice Calvino "quest'uomo che si dice sempre che mette se stesso al centro d'ogni narrazione, che fa scaturire sempre attorno alla sua presenza incontri straordinari, è poi lo scrittore più dedito alle cose, al mondo oggettivo, alle persone. Il suo metodo è di descrivere con rispetto e devozione ciò che vede, con uno scrupolo di fedeltà che gli fa moltiplicare particolari e aggettivi. La sua scrittura è un puro strumento di questo suo rapporto amoroso col mondo, di questa fedeltà agli oggetti della sua rappresentazione".

Un tale metodo applicato a mille storie con-vissute, quindi autobiografiche, evidenzia le tipicità che ci accomunano, il comune denominatore di tutte le individualità:

"L'aver scoperto che anch'io avevo dei legami di sangue su questa terra pareva colmasse piacevolmente, ai loro occhi, una lacuna. Il vedermi con una sorella muoveva uno dei loro più profondi sentimenti: quello della consanguineità, che, dove non c'è senso di Stato nè di religione, tiene, con tanta maggiore intensità il posto di quelli. Non è l'istituto familiare, vincolo sociale, giuridico e sentimentale; ma il senso sacro, arcano e magico di una comunanza.[...] Le donne ci salutavano, e ci coprivano di benedizioni: - Benedetto il ventre che vi ha portati! - Benedette le mammelle che vi hanno allattati! -Le vecchie sdentate sulle porte cessavano per un momento di filare la lana, per mormorarci le loro sentenze: -Frate e sore, core e core -. Luisa, che aveva portata con sè la sua naturale atmosfera razionale e cittadina, non cessava di stupirsi di un così strano entusiasmo per il fatto, così semplice, che io avessi una sorella".

Questo modo di raccontare utilizza anche aneddoti per descrivere l'armonia ed il filo delle cose che esprimono, nel loro percorso, il senso ambiguo di un'epoca, la sua complessità, si riesce a raccontare il mondo partendo da una storia in relazione a tante altre, e ricavando l'oggettività del mondo così generata si apprezza l'unicità di ciascuna storia. Ovvero il lettore è posto in una duplice prospettiva: di una vita che si singolarizza, diventa unica, e di una universalità del vissuto che si struttura nelle vite particolari.

Per concludere con le parole di Sartre:

"Ma ogni volta, dietro l'irriducibile singolarità del fatto raccontato, si può intravedere tutto un mondo - il nostro mondo - in quanto si esprime e si realizza nella qualità fuggitiva di una presenza subito dileguata. Darò a tutto questo il nome di senso, in contrapposizione ai significati. Il senso, ovvero l'incarnarsi del tutto in ciascuna parte, ecco ciò che conferisce ai discorsi di Carlo Levi un fascino inimitabile".

giovedì 4 novembre 2010

Matrimonio alla francese 1/2



Arthhur e Gabriela sono giovani e miei coetani, e per questo, come capita in eventi così importanti, sono anche uno specchio. Uno specchio transnazionale dei propri percorsi di vita il cui confronto è inevitabile.

Arthur e Gabriela hanno venticinque anni, sono figli e futuri rappresentanti della classe media francese, entrambi cresciuti a Strasburgo, in Alsazia, entrambi trasferitisi a Parigi per studiare e poi per lavorare: lui giornalista a Europe1, lei insegnante di ruolo alle scuole elementari. Lavoratori, istruiti, 25 anni, appena sposati. Cosa rara oggi in Italia per una coppia giovane e psicologicamente "precaria" mentre in Francia grazie anche alle fortissime politiche familiari, e all'assenza di precarietà contrattuale, è pratica e mentalità diffusa sposarsi, convivere e fare figli con la dovuta spensieratezza dell'entusiamo giovanile. Con leggerezza, senza rumore e stupore altrui, ma con il sentimento della scoperta e il fascino dell'avventura.

Per questo hanno praticato una cerimonia snella e divertente, informale, per nulla commovente, partecipata, aperta anche alla signora matta di passaggio, quasi fosse una messa in scena, e forse in fondo, lo è stata. Un matrimonio celebrato secondo il rito laico francese, tra spirito repubblicano e campagna elettorale, dal vice sindaco del 5° municipio di Parigi. All'ombra del Panthéon, una voce àtona da funzionario alla fine ha formalizzato una cerimonia che aveva lo spirito del cabaret.


Qualcosa di molto diverso rispetto al pesante e lungo cerimoniale italiano, che spesso prevede l'annuncio alle famiglie con un anno di anticipo per aiutarle ad accettare l'idea, una tappa intermedia rappresentata dalla promessa di fidanzamento (nei casi estremi), ed immense energie spese in regali e formalità organizzative, con relativi costi, che scoraggerebbero chiunque a farsi un'idea accattivante della vita di coppia, del viaggio da fare verso il futuro.

Arthur e Gabriela hanno deciso di sposarsi solo due mesi prima, a fine estate come buon proposito dell'anno che verrà e detto fatto: è bastato fare le carte alla Mairie, un giro di e-mail agli amici e avvisare le famiglie della decisione presa.


Uno stile di fare le cose leggero, come ancora più leggera è stata l'attitudine nell'accettarlo da parte di amici e parenti. Reazioni talmente rilassate che mi fanno rivendicare il sogno di una rivoluzione leggera dello spirito, appesantito dai timori di un futuro incerto che nessuno riesce a schiarire e dalla riluttanza a compiere passi verso nuove direzioni segnalate come azzardati e scivolosi sentieri sui quali scivolare. C'è paura di muoversi, paura di cambiare, c'è un conservatorismo che sale fin nelle ossa e rifugge a tempo indeterminato le scelte e i rischi che determineranno il nostro futuro. In Italia Arthur e Gabriella avrebbero dimostrato coraggio.


Realizzatosi il miracolo repubblicano tramite la creazione del neo-nucleo familiare, la giornata è stata divisa in due: il pranzo con parenti e testimoni, e la sera una festa a casa con gli amici, invitati a portare da bere. Un matrimonio senza stress, senza fotografi invasivi e opprimenti, senza giro dei tavoli per scambiare con tutti una parola, alcuna torta da tagliare, ma solo una grande festa da condividere con gli altri. Amici cari, conoscenti e imbucati. In perfetto stile festa di laurea.


Un momento in cui si è esorcizzato collettivamente il passaggio sostanziale verso la maturità coincidente con la fine degli studi, l'inizio del lavoro, l'essere indipendenti. Un momento di trapasso generazionale, in cui per un attimo di estrema lucidità ho rivisto, nel tentativo di esorcizzarli, atteggiamenti e situazioni adolescenziali.


Come guardando una vecchia fotografia in cui riaffiorano alla memoria vecchie sensazioni sopite e mai dimenticate, nel pieno della festa, tra le braccia agitate verso l'alto ho visto lo specchio del tempo che passa, cresce, si evolve. Ad illuminare la stanza, come una luce di Caravaggio, un contrasto di Salgado, una schiarita di Hopper, le canzoni dei miei dodici-tredici anni, dalle Spice Girls agli Aqua!

Compilation-revivals degli anni Novanta che risvegliando la memoria sonora mi hanno fatto pensare al tempo passato e alla testimonianza collettiva che stavamo vivendo.


In effetti, a che serve una festa se non a celebrare un passaggio appena compiuto che va condiviso ed esorcizzato con chi ha vissuto il tuo stesso percorso affinché possa essere da tutti accettato? E in primis dai diretti interessati.

Un matrimonio, un rito, che per concretizzarsi ha bisogno di essere pubblico, sociale, celebrato. E' grazie al ruolo dei testimoni, ovvero degli amici, che si ratifica e convalida tale momento: l'avvenimento diventa reale ed effettivo proprio perché condiviso, mentre se rimanesse solo tra i due sposi ci sarebbe il rischio di conservare un'effimera promessa.

Un passaggio che non lascia indifferenti, ma che tocca in maniera tribale anche i sentimenti, prima non percepiti e ora condivisi, di chi vi ha partecipato. Uno stato d'animo prima non maturato perché immerso in una dimensione e in un flusso percepibili solo da chi ci era già passato.

Una festa che è un'esternazione, un grido di partenza, il fischio di un treno verso una nuova maturità vissuta come il pelo della barba solo adesso curata, un abbraccio più lungo, una sveglia non rinviata. La vita che esplodeva in mille direzioni trova canali in cui liquefarsi scivolando per pendici di storie che noi stessi abbiamo creato. Nulla si distrugge e nulla si crea, tutto si trasforma, e non è da meno la vita che ora prende forma.

Io sono Arthur

domenica 17 ottobre 2010

domenica 10 ottobre 2010

Albaycin: lotta di bianco e di nero

Una lotta sensuale tra le ombre di nero e il bianco accecante al quale si nascondono.

Un abbraccio sucio e romantico.

Una discesa nella parte baja, nel sole delle tre, nel massimo della luce.







































giovedì 30 settembre 2010

Ritorno in seconde case


Il piacere di sedere e sentire le acque del Bosforo è qualcosa di non cancellabile. Le correnti scorrono in apparenza docili e tranquille, come le vite di amici e conoscenti, creando mulinelli in particolari punti profondi e sensibili. Il corso delle acque procede lungo uno stretto fatto di fasi, doveri e aspettative più stabili del previsto.

Ricerco le atmosfere vissute ritrovando amici che fortunatamente non sono cambiati sì velocemente, ma che come le correnti del Bosforo cambiano in profondità rimanendo stabili e placidi in superficie.


L'area di immensità della città permane sulle acque tra i due continenti, con le colline di palazzi e boschi preservati dai parchi militari, giovani e vecchi, bambini ed innamorati ne sono, come me, ancora attratti ed ipnotizzati. Di notte come di giorno. I suoi tramonti come i suoi riflessi nell'oscurità.


In questa immensa area urbana ci si sente a casa quando si sa cosa fare e dove andare, come perdersi, e dove lasciarsi trasportare. Ovvero quando ci si muove con dimistichezza senza essere travolti dai flussi urbani che sfociano nel suo canale principale.

La completa disinvoltura negli spazi cittadini è la stessa di quella che precedeva la partenza, come se non fossi mai partito, con la familiarità della lingua ancora non scomparsa, con le abitudini quotidiane come vecchie di cent'anni, con i rapporti fraterni ancora non interrati.

Tornare a Istanbul dopo due anni ha il sapore del çay appena preso, ha gli odori che riaprono in un attimo la porta del nostro essere in un mondo ben conosciuto. Significa ritrovare persone che, parallelamente a me, hanno fatto gli stessi percorsi con aspettative simili e di fronte agli stessi interrogativi.

Tutti gli amici maschi hanno terminato l'università e svolto il servizio militare in un paese che da anni è in guerra nei confini del sud-est. Fortunatamente tutti sono tornati interi. Hanno cominciato a lavorare, hanno avuto nuovi amori e nuove idee, ma con la naturalezza dei rapporti che hanno condiviso qualcosa di importante, ci si ritrova a parlare come se ci fossimo lasciati solo due giorni prima. Ubeyd ha lavorato circa un anno in Garanti, un importante istituto finanziario, ed è partito militare per Afyon, si è lasciato con Mary, ma spera di rivederla ora che è in partenza per la Germania per svolgere un master di due anni. Mehmet lavora da circa due anni in AkBank, ha fatto anche lui il militare e insegue nuovi amori con la speranza di viaggiare un po' di più. Recep ha quasi finito l'Università, ha passato sei mesi a Madrid per l'Erasmus e spera di fare un master in Europa e restarci a lavorare per evitare il servizio militare. Emin lo si incontra ancora nelle notti da bar che balla per scacciare demoni ancora non individuati. Max è rientrato in Germania per fare il capoufficio a Dresda per Der Spiegel, Tom è tornato in Polonia a lavorare con lo zio, che è un ricco industriale, dopo essere arrivato inseguendo improbabili amori conosciuti su treni per smerciare tappeti, Ercan è diventato attore e gira con la sua nuova compagnia di teatro, Alex vive ancora al CAF anche se di inverno non hanno il riscaldamento e con quelli del Badehane bazzica ancora nei vicoli di Tunel.

Forse tra connazionali non sarebbe successo, forse se fossimo stati più vicini e raggiungibili avrebbe significato un implicito disinteresse a restare in contatto, ma qui nonostante la distanza e l'oggettiva difficoltà a venirmi a trovare in Europa, tutto è come prima.

Stesse sensazioni quando ho riattraversato i vicoli dell'Albaycin, invaso dalle memorie olfattive, dall'accento andaluso, per poi perdermi nella luce riflessa dei suoi vicoli. In quell'incastro di bianco e di nero, una lotta che acceca nei due estremi, abbagliando o nascondendo alla vista.


Una città certamente più piccola di Istanbul, ma ugualmente viva, la cui unicità è rappresentata proprio da quel centro storico fatto di vicoletti e case bianche che si arrampicano sulla collina dirimpetto all'Alambra.

Un immenso spazio pedonale che costituisce il centro città, con una vista su colline verdi raggiungibili a piedi in soli venti minuti. Un'integrazione con lo spazio naturale circostante che schiude, secondo me, la bellezza principale della città andalusa.


Un esempio di città in bilico tra tradizione e modernità che cammina sulla cresta di un promontorio che nasconde all'interno della sua zona franca una pericolosa speculazione turistica, opportunità e minaccia allo stesso tempo.


Anche qui sembra di aver salutato solamente la sera precedente gli amici ritrovati dopo un anno, piccoli cambiamenti a fronte di sguardi e sorrisi che sono rimasti intatti. Gesti quotidiani coperti da uno strato di polvere che altro non è che il tempo che passa rivelando abitudini immutate.

In realtà sotto lo strato superficiale dei gesti, al di là dell'immagine di una città che appare uguale a se stessa, l'apparente immobilità contiene fiumi sotterranei di cambiamenti. Una sensazione che dà prova della veridicità dei rapporti che si erano instaurati.

Lo scorrere del Bosforo contiene correnti che ipnotizzano come le braci di un camino: è il sentimento di evasione che si ha nell'osservarlo che ti fa dimenticare della vita che ti scorre accanto; così i vicoli dell'Albaycin sono un dedalo di strade senza tempo in cui perdersi quando necessario. La sua intimità lo rende tanto amato.

Sono queste sensazioni subito ritrovate di pace e serenità che ti fanno sentire di nuovo a casa. Case cercate e ritrovate che sono divenuti luoghi dello spirito, tappe nelle quali ritrovarsi per acquistare il senso del cammino percorso, segnare la tacca di un percorso più lungo e più amplio.

Nel sentirsi subito a casa come se non fossi mai partito sono necessari gli amici che rappresentano un cordone ombelicale mai tagliato, rapporti d'amicizia che sono ponti tra mondi apparentemente lontani. La città la senti tua quando con una breve visita ne allontani la distanza, quando tornare ha scacciato la paura di non ritrovarsi in quei luoghi divenuti tanto cari.

Tornare nei vicoli dell'Albaycin, tornare in contemplazione del Bosforo, non ha significato avere quell'attimo di sospensione e smarrimento del ritorno nel nuovo posto, perchè fortemente vissuti, fortemente assorbiti.

Le partenze sono momenti di tensione che si scaricano completamente solo al successivo ritorno. Tornando si scarica la tensione, assicurandosi la tranquillità di chi non ha paura di perdere nel fondo della memoria i luoghi tanto amati. Come quando si lascia una persona e la paura principale è di dimenticarne il volto, l'odore, le espressioni, i dettagli, la sensazione di serenità qui sta nell'osservare che molte cose non sono cambiate, e quelle nuove sono ancora interpretabili.

Nel concentrarci troppo sulla partenza, un'esplosione di emozioni che mette fine ad un periodo importante, dimentichiamo che possiamo avere anche un ritorno che insegni a gestire più posti dell'animo, ad avere più case, ad avere ricordi a cui aggrapparsi per poi essere guidati nel processo di riflessione.

Il ritorno lo riconosci negli odori ritrovati, nella luce ritovata, nei piccoli angoli solo tuoi che non sono cambiati, nelle piccole novità apprezzabili solo a chi già ne conosceva l'importanza.
Tornare per capire se abbiamo fatto le scelte giuste, per mantenere i fili delle reti umane, per non far prendere il sopravvento della nostalgia sulle novità e sulle nuove partenze.

Il ricordo lo riconosci nel senso di evasione e di sperduto ritrovamento che ti é dato dallo scorrere infinito del Bosforo di notte. Dalla naturalezza delle chiacchiere all'ombra della moschea di Kasim Pasa, dal placarsi degli spiriti in un vortice di luci che sono le fessure dell'Hammam. Il ricordo lo riconosci nel dondolìo ininterrotto all'ombra di una persiana. Il ritorno lo ritrovi nei sorrisi più pacati.

Il ritorno é necessario per andare avanti. Tramite una nuova opera e un nuovo inizio lanciato dalla constatazione di quello che è passato.

sabato 25 settembre 2010

Vivo altrove e l'ipotesi del rientro


Il fenomeno è in atto da un po' di anni, forse un decennio. E non perché non se ne sentisse il bisogno prima, ma perché le possibilità si sono moltiplicate dopo. Voli low cost, erasmus, reti di amici, assenza di passaporti e frontiere intra-europee, hospitalityclub e couchsurfing, maggiori interazioni che hanno reso più facile realizzare il sogno di partire, dare sfogo all'evasione e liberare la frustrazione.

E' un tema forse mai affrontato esplicitamente in questo blog, ma sempre sullo sfondo, presente come un ricamo colorato su uno sfondo nero di parole argentate. L'Italia da un po' di anni non è un paese per giovani, è chiaro, almeno non quanto gli altri paesi europei. Chi ha viaggiato e ha visto i vicini, si rende facilmente conto dell'inadeguatezza e arretratezza culturale italiana: spesso lottiamo per qualcosa che altrove è già considerata normale, non abbiamo mai la sensazione di essere i primi a fare qualcosa di positivo, per non parlare dell'immagine che gli altri hanno di noi.

Per questi motivi, è da poco partita un'iniziativa, con il correlato manifesto, volta a censire, o meglio raccontare, tutte le storie di Italiani espatriati, emigranti, non per necessità, ma per scelta. Perché la vera novità è che si tratta sempre più di una scelta di vita, intellettuale, di un bisogno civile, un desiderio da realizzare. A partire spesso sono i migliori nei campi più disparati, ricercatori, artisti, scienziati, giovani ambiziosi e avventurieri per cui l'Italia non merita la loro conquista.

Ho spesso tentato di affrontare le storie di amici coetanei stranieri, Altri, che altro non sono che il nostro riflesso: quello di una generazione vagabonda e cosmopolita un po' per scelta e un po' per necessità. Storie, le nostre e quelle altrui, che si integrano e aiutano a raccontare i tempi di questo processo di globalizzazione di cui noi siamo i figli. Le partenze sono aumentate un po' per tutti, l'interscambio tra paesi, soprattutto europei, fa sì che Francesi ed Italiani vadano in Spagna, Spagnoli, Italiani, Rumeni e Polacchi in Francia, Italiani, Spagnoli, Lituani, Polacchi in Inghilterra, Francesi, Italiani e Polacchi in Germania, i Tedeschi rimangono a casa loro e gli Inglesi pure. In Italia nessuno. Ovvero il nostro Paese subisce questo export negativo di giovani, facendo sì che pochi vengano in Italia con l'idea di ritornare dopo l'Erasmus se non per una lunga vacanza post-laurea.

Quindi, parlando di partenze e ritorni dovremmo parlare proprio dell'esodo italiano.

Questo è quello che tenta di fare Vivo altrove, un libro sicuramente interessante, che tratta di temi quali la casa, le radici, il senso di distacco e di solitudine, le frontiere e la modernità liquida. Temi intuìti che galleggiano nelle atmosfere contemporanee, ma per afferrare le quali conviene ascoltare le storie raccolte di una generazione con i piedi leggeri e la voglia di volare nelle vene:

"C’è chi parte per dimenticare, chi parte per poter scegliere, chi parte per paura e chi parte per scommessa. C’è l’insegnante di italiano che sbarca il lunario come cantante a Barcellona, l’avvocato che vive a L’Aia e vuole fare il deejay a Parigi, il veterinario romano che si adatta a fare il cameriere a Londra, il biologo di Latina che finisce a fare l’editore a Berlino…
Sono l’Italia fuori dall’Italia. Sono i giovani, sempre più numerosi, che hanno scelto di vivere lontani da casa, alla ricerca di un lavoro nuovo, o di una vita diversa. Questo libro racconta le loro storie, che sono piene di vitalità e venate di malinconia, scanzonate, tenere, in fondo preoccupanti. Sono il ritratto di un paese virtuale e di un futuro, forse, mancato: perché il paese che questi ragazzi hanno deciso di abbandonare continua a non ascoltarli.

Vivo altrove racconta le storie di giovani tra i 25 e i 40 anni che hanno deciso di lasciare il nostro paese: non solo cervelli in fuga, certi di trovare all’estero opportunità migliori, ma anche ragazzi “normali” che sentono questa Italia troppo chiusa, ferma, asfittica, immobile, rivolta solo a se stessa. Persone cresciute sentendosi cittadini del mondo, che male tollerano un paese preso in mille guerriglie interne – politiche, geografiche, sociali, ma soprattutto generazionali – e che cercano all’estero opportunità che mai avrebbero trovato in Italia.

Il libro raccoglie molte storie, ognuna con le sue particolarità e specificità, ma costituisce anche il ritratto di una generazione. Tutti i dati confermano che il fenomeno della migrazione di giovani all’estero è in continuo aumento: secondo il consorzio universitario Alamlaurea, negli ultimi dieci anni il numero di laureati che si è spostato oltreconfine per trovare lavoro è triplicato, mediamente oltre il 3,5% dei nostri laureati si trasferisce ogni anno all’estero. È difficile fare statistiche su un fenomeno in continua evoluzione come quello di cui si occupa questo libro, ma si calcola ad esempio che i giovani italiani (tra i 25 e i 35 anni) attualmente residenti a Berlino siano all’incirca 6.000 e quelli residenti a Barcellona da meno di cinque anni siano circa 10.000.

Potremmo chiamarla “generazione Europa”, decine di migliaia di giovani che si spostano, prediligendo le grandi città e le capitali, le cosiddette “Eurocities”, dove approdano e da dove molto spesso ripartono, non alla volta del Belpaese, ma verso nuovi paesi e nuove esperienze.
Un generazione liquida".



lunedì 23 agosto 2010

Le discussioni barbare continuano


In questi ultimi giorni non mi poteva sfuggire l'ultima discussione avvenuta tra Baricco e Eugenio Scalfari sulle pagine di Repubblica. Una lettera indirizzata dal primo al secondo, fondatore ed ex direttore del quotidiano, in cui si discute di "Barbari e Imbarbariti".

La tesi di Baricco è sempre la stessa espressa nel suo libro "I Barbari" che mi ha fornito tanta ispirazione da scrivere ben quattro post: qui, qui, questo e quest'altro.

E' comunque interessante vedere l'autore tornare sull'argomento a distanza di anni (il libro è stato scritto nel 2006) perchè ho l'impressione che si sia addolcito e che il tono apocalittico abbia lasciato il posto a più misurate e precise osservazioni come appunto la differenza tra "Barbari e Imbarbariti".

Traspare, ma forse è solo una mia impressione, una maggiore positività verso il futuro che si sta costruendo (e quindi non distruggendo):

"Quel che mi sembra di aver capito è che quella forma di barbarie genera inevitabilmente imbarbarimento ma anche, e simultaneamente, ricostruzione, e civiltà. Non potrebbe essere diversamente".

E sulla distinzione tra "barbarie" e "imbarbarimento":

"E allora perché dovremmo giudicare Steve Jobs dai messaggi sgrammaticati che la gente si scambia sui suoi Iphone? Perché non ci arrendiamo all'idea che l'imbarbarimento è una sorta di scarico chimico che la fabbrica del futuro non può fare a meno di produrre? Simili rifiuti li ha prodotti l'Illuminismo, e prima di allora l'Umanesimo, e prima di allora l'idea imperiale di Roma, e prima di allora... Così mi viene istintivo non farmi distrarre dall'imbarbarimento, e di studiare la barbarie".

Insomma rispetto alle argomentazioni portate avanti nel libro in maniera abbastanza intuitiva e approssimativa ecco che appare una fondamentale distinzione che separa le cose meritevoli del "radicamente nuovo" dagli "scarti chimici" prodotti da tutte le sottoculture di tutte le civiltà nei secoli dei secoli.

Quindi ai Barbari finalmente viene riconosciuta un'intelligenza creativa e dirompente e non si usano quelle che potremmo definire "conseguenze inintenzionali" per criticare quella stessa idea innovativa che le ha generate. Si tenta di sanare anche la dicotomia tra superficialità e profondità, filo conduttore del suo ragionamento, ripensandone la definizione stessa:

" [il sistema di pensiero dei barbari] Non elimina il senso, ma lo ridistribuisce su un campo aperto che solo per comodità definiamo ancora superficialità, ma che in realtà è una dimensione per cui non abbiamo ancora nomi, e che comunque ha poco a che fare con la superficialità intesa come limite, come soglia inattraversata del senso delle cose, come facciata semplicistica del mondo. In un certo senso potrei dire che il mondo di pensiero in cui si muove Steve Jobs (e mio figlio, 11 anni) sta a quello in cui siamo cresciuti noi due come il firmamento di Copernico sta a quello di Tolomeo (peraltro erano inesatti entrambi); o come Emma Bovary sta ad Andromaca".

Quella carenza di parole individuata da Baricco, che infatti chiama il suo articolo "Il mondo senza nome dei nuovi barbari", è giustamente l'atteggiamento di chi non riesce a raccontare un mondo perchè appartenente ad un nuovo immaginario, una nuova cultura in cui non è cresciuto, un mondo per descrivere il quale mancano le parole perchè il limite del nostro pensiero è segnato proprio dal linguaggio a disposizione, che non è creato mai dalla forza di una sola persona, ma dal contributo di tutti.

Non sarà forse lui a trovare le parole giuste, e nemmeno noi, forse i posteri quando il fenomeno sarà pienamente istituzionalizzato e assimilato, quando saranno diffuse e capite le parole nate con la forza dell'aderenza.

Ma quale che siano queste nuove parole, comunque, noi qualcuna l'abbiamo già proposta, HcGeneration.

L'esternalizzazione della politica migratoria e gli amici d'oltrefrontiera



L'obiettivo delle Scienze sociali dovrebbe essere quello di interrogarsi sulle cosiddette conseguenze inintenzionali delle azioni individuali. Studiare solo gli effetti voluti non avrebbe senso proprio perchè ci sarebbe poco da dire al riguardo, la vera incognita sociale sono gli effetti indiretti e inaspettati delle azioni e politiche che si rivelano efficaci, ma con pesanti effetti nella direzione opposta a quella voluta.

Per dirla con le parole di F.A. Hayek: "se i fenomeni sociali non manifestassero altro ordine all'infuori di quello conferito loro da un'intenzionalità cosciente, non ci sarebbe posto per alcuna ricerca teorica della società e tutto si ridurrebbe esclusivamente, come spesso si sente dire, ai problemi di psicologia".

Accanto agli esiti intenzionali dell'azione si verificano una cascata di conseguenze
inintenzionali, che sedimentandosi e interagendo nel tempo danno luce a delle regolarità, cioè a quei fenomeni, che sono quindi oggetto delle scienze sociali.

Oggi giorno grazie all'attivismo politico delle democrazie occidentali abbiamo tantissimi esempi di questo tipo, dalle politiche di assistenza che creano disoccupati istituzionalizzati, alle politiche di "sviluppo" che degradano i territori, alle politiche di salvaguardia che ingessano e creano emarginazione.

Un altro esempio è offerto dalle politiche europee che riguardano la libera circolazione di persone all'interno dei suoi confini. Tale politica comune, che comincia con gli
Accordi di Schengen, ha avuto quale effetto immediato l'abbattimento delle frontiere interne, la libera circolazione dei cittadini europei e il diritto di insediarsi, studiare, lavorare, vivere e morire in qualsiasi Stato dell'Unione. Obiettivo bellissimo che ha contribuito a cementificare le basi delle nuove generazioni europee, che viaggiano si conoscono, si ospitano, si amano, vivono sempre di più come una grande popolazione continentale. Una volta in visita alla Commissione Europea a Bruxelles, un alto funzionario disse "L'Europa è stata fatta da due cose, Erasmus e voli low cost". Un entusiasmo per un mondo senza confini marcato tuttavia da un forte eurocentrismo: non ci si è resi conto che annullando i confini interni stavamo costruendo fossati e mura esterne. Stava nascendo la Fortezza Europa.

Gli
Accordi di Schengen infatti non avevano quale unico obiettivo l'abolizione dei controlli sistematici delle persone alle frontiere, ma anche il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne dello spazio Schengen proprio per assicurare il raggiungimento del primo obiettivo senza compromettere la sicurezza e l'equilibrio dei paesi europei. Quindici anni fa nessuno pensava che per raggiungere una libertà di tale valore avremmo assisistito ad una pari coercizione negli spostamenti altrui. Una chiara conseguenza inintenzionale.

Per assicurare una libera circolazione interna è stato necessario allo stesso tempo rafforzare i confini esterni, si sa libertà non è assenza di regole, ma il giusto numero di regole affinchè ci si possa sentire liberi, ovvero si allargava lo spazio di libertà interno limitando quello esterno per evitare falle nel sistema. Bisognava annullare le barriere intermedie eregendone di nuove più in là, introducendo un Visto per i cittadini di paesi terzi, controlli più stretti alle frontiere esterne e misure più restrittive per la migrazione legale, creando di conseguenza un mercato della migrazione illegale e delegando sempre di più a paesi terzi vicini il controllo dei flussi migratori. La cosiddetta
esternalizzazione della politica migratoria:

"Il termine «esternalizazzione» viene del vocabolario economico e descrive il fatto di sub-appaltare una parte del processo di produzione ad un terzo. In tema di migrazione indica la strategia di trasferimento verso un paese terzo delle capacità e della responsabilità di controllo dei flussi migratori. Nel nostro caso si riferisce agli accordi firmati tra l’Italia e la Libia affinché quest’ultima gestisca l’afflusso di migranti che attraversano il suo territorio. Questa strategia è applicata con tutti i paesi vicini della UE sia a livello bilaterale che comunitario".

"Questa politica ha ristretto le possibilità legali di accesso al territorio europeo ed ha avuto un effetto contro-produttivo: paradossalmente, lo sviluppo della libera circolazione dentro il territorio europeo ha avuto come conseguenza l’erezione di una frontiera esterna più ermetica e quindi l’incremento della migrazione illegale, rendendo vani i tentativi di controllo del territorio e dei flussi di persone dentro di questo"*.

"L’idea di esternalizzare la politica migratoria, ossia la sorveglianza delle frontiere nasce dall’ipotesi che una volta entrati nello spazio Schengen, i migranti clandestini siano più difficilmente espellibili.

La strategia europea pertanto è consistita nel fare pressione sugli Stati membri la cui frontiera nazionale coincideva con la frontiera esterna dell’UE nel Mediterraneo, principale porta d'entrata dei migranti clandestini. Dalla fine degli anni '90 , la Spagna è stata al centro di questo processo fino a quando ha implementato il SIVE (Sistema Integrato di Vigilanza Esterna) nello stretto di Gibilterra nel 1998 - e poi sulle isole Canarie[i] quando si è spostata la pressione migratoria proveniente dell’Africa – con l’aiuto finanziario dell’UE. Questa rete di radar, sensori, telecamere termiche e a infrarosso ha permesso una vigilanza ottimale delle sue coste rendendo quasi impossibile la traversata del mare a questo livello.

Ma visto il costo di questa strategia di sorveglianza hi-tech delle frontiere, all’inizio degli anni 2000 è mutata in una strategia di responsabilizzazione degli Stati della sponda Sud del Mediterraneo e di trasferimento delle capacità di controllo dei flussi migratori. È questa strategia che corrisponde oggi all’esternalizzazione che vogliamo analizzare e che caratterizza la cooperazione migratoria italo-libica più recente. Quest’esternalizzazione si svolge sia a livello europeo che a livello degli Stati membri. A livello europeo si è tradotta nella creazione dell’Agenzia Frontex, Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea, operativa dal 2005. Il Summit di Sevilla del 2002 precisa che oramai, qualsiasi tipo di relazione tra un paese terzo e l’UE dovrà includere una clausola riguardante la gestione congiunta dei flussi migratori[ii]. Da lì, l’UE ha integrato questa gestione congiunta dei flussi, sempre più presente, nei strumenti di cooperazione con i paesi del Mediterraneo: programma MEDA[iii], Politica Europea di Vicinato, etc. A livello dei paesi dell’UE stessi, uno degli strumenti più conoscuti di quest’esternalizzazione è la firma di accordi di riammissione permettendo a essi di rinviare direttamente nei paesi terzi attraversati i migranti arrivati nel loro territorio in maniera illegale"*.

Concentrati sul processo di integrazione europea non ci siamo resi conto nel frattempo delle barriere erette tra noi e loro, che di fatto abbiamo creato un club, il più esclusivo del mondo, dove la gente è disposta a morire pur di arrivare e che rischia di isolarci creando macro-aree da cui si può facilmente uscire ma difficilmente entrare. Amici turchi che non sono mai venuti a trovarmi in Italia, amici marocchini che combattono per avere un visto, giovani che tentano di attraversare confini con la scusa di studiare per guardare un mondo altrimenti fin troppo esclusivo. L'Europa senza frontiere inizia a mostrare le sue contraddizioni ed i suoi limiti, forse non così l'avevamo immaginata. Una globalizzazione con due pesi e due misure a causa della quale aspetto ancora la visita degli amici d'oltrefrontiera.





[i] ELMADMAD, Khadidja. Op. cit.

[ii] « 33. (…) The European Council urges that any future cooperation, association or equivalent agreement which the European Union or the European Community concludes with any country should include a clause on joint management of migration flows and on compulsory readmission in the event of illegal immigration ». Estratto dalla dichiarazione finale del Consiglio europeo di Siviglia, 21-22 giugno 2002.

[iii] Presentazione del programma MEDA: http://europa.eu/legislation_summaries/external_relations/relations_with_third_countries/mediterranean_partner_countries/r15006_it.htm

*questo testo è un'anticipazione di un articolo di Sonia Grigt che apparirà sul web magazine
Glocus