giovedì 4 novembre 2010

Matrimonio alla francese 1/2



Arthhur e Gabriela sono giovani e miei coetani, e per questo, come capita in eventi così importanti, sono anche uno specchio. Uno specchio transnazionale dei propri percorsi di vita il cui confronto è inevitabile.

Arthur e Gabriela hanno venticinque anni, sono figli e futuri rappresentanti della classe media francese, entrambi cresciuti a Strasburgo, in Alsazia, entrambi trasferitisi a Parigi per studiare e poi per lavorare: lui giornalista a Europe1, lei insegnante di ruolo alle scuole elementari. Lavoratori, istruiti, 25 anni, appena sposati. Cosa rara oggi in Italia per una coppia giovane e psicologicamente "precaria" mentre in Francia grazie anche alle fortissime politiche familiari, e all'assenza di precarietà contrattuale, è pratica e mentalità diffusa sposarsi, convivere e fare figli con la dovuta spensieratezza dell'entusiamo giovanile. Con leggerezza, senza rumore e stupore altrui, ma con il sentimento della scoperta e il fascino dell'avventura.

Per questo hanno praticato una cerimonia snella e divertente, informale, per nulla commovente, partecipata, aperta anche alla signora matta di passaggio, quasi fosse una messa in scena, e forse in fondo, lo è stata. Un matrimonio celebrato secondo il rito laico francese, tra spirito repubblicano e campagna elettorale, dal vice sindaco del 5° municipio di Parigi. All'ombra del Panthéon, una voce àtona da funzionario alla fine ha formalizzato una cerimonia che aveva lo spirito del cabaret.


Qualcosa di molto diverso rispetto al pesante e lungo cerimoniale italiano, che spesso prevede l'annuncio alle famiglie con un anno di anticipo per aiutarle ad accettare l'idea, una tappa intermedia rappresentata dalla promessa di fidanzamento (nei casi estremi), ed immense energie spese in regali e formalità organizzative, con relativi costi, che scoraggerebbero chiunque a farsi un'idea accattivante della vita di coppia, del viaggio da fare verso il futuro.

Arthur e Gabriela hanno deciso di sposarsi solo due mesi prima, a fine estate come buon proposito dell'anno che verrà e detto fatto: è bastato fare le carte alla Mairie, un giro di e-mail agli amici e avvisare le famiglie della decisione presa.


Uno stile di fare le cose leggero, come ancora più leggera è stata l'attitudine nell'accettarlo da parte di amici e parenti. Reazioni talmente rilassate che mi fanno rivendicare il sogno di una rivoluzione leggera dello spirito, appesantito dai timori di un futuro incerto che nessuno riesce a schiarire e dalla riluttanza a compiere passi verso nuove direzioni segnalate come azzardati e scivolosi sentieri sui quali scivolare. C'è paura di muoversi, paura di cambiare, c'è un conservatorismo che sale fin nelle ossa e rifugge a tempo indeterminato le scelte e i rischi che determineranno il nostro futuro. In Italia Arthur e Gabriella avrebbero dimostrato coraggio.


Realizzatosi il miracolo repubblicano tramite la creazione del neo-nucleo familiare, la giornata è stata divisa in due: il pranzo con parenti e testimoni, e la sera una festa a casa con gli amici, invitati a portare da bere. Un matrimonio senza stress, senza fotografi invasivi e opprimenti, senza giro dei tavoli per scambiare con tutti una parola, alcuna torta da tagliare, ma solo una grande festa da condividere con gli altri. Amici cari, conoscenti e imbucati. In perfetto stile festa di laurea.


Un momento in cui si è esorcizzato collettivamente il passaggio sostanziale verso la maturità coincidente con la fine degli studi, l'inizio del lavoro, l'essere indipendenti. Un momento di trapasso generazionale, in cui per un attimo di estrema lucidità ho rivisto, nel tentativo di esorcizzarli, atteggiamenti e situazioni adolescenziali.


Come guardando una vecchia fotografia in cui riaffiorano alla memoria vecchie sensazioni sopite e mai dimenticate, nel pieno della festa, tra le braccia agitate verso l'alto ho visto lo specchio del tempo che passa, cresce, si evolve. Ad illuminare la stanza, come una luce di Caravaggio, un contrasto di Salgado, una schiarita di Hopper, le canzoni dei miei dodici-tredici anni, dalle Spice Girls agli Aqua!

Compilation-revivals degli anni Novanta che risvegliando la memoria sonora mi hanno fatto pensare al tempo passato e alla testimonianza collettiva che stavamo vivendo.


In effetti, a che serve una festa se non a celebrare un passaggio appena compiuto che va condiviso ed esorcizzato con chi ha vissuto il tuo stesso percorso affinché possa essere da tutti accettato? E in primis dai diretti interessati.

Un matrimonio, un rito, che per concretizzarsi ha bisogno di essere pubblico, sociale, celebrato. E' grazie al ruolo dei testimoni, ovvero degli amici, che si ratifica e convalida tale momento: l'avvenimento diventa reale ed effettivo proprio perché condiviso, mentre se rimanesse solo tra i due sposi ci sarebbe il rischio di conservare un'effimera promessa.

Un passaggio che non lascia indifferenti, ma che tocca in maniera tribale anche i sentimenti, prima non percepiti e ora condivisi, di chi vi ha partecipato. Uno stato d'animo prima non maturato perché immerso in una dimensione e in un flusso percepibili solo da chi ci era già passato.

Una festa che è un'esternazione, un grido di partenza, il fischio di un treno verso una nuova maturità vissuta come il pelo della barba solo adesso curata, un abbraccio più lungo, una sveglia non rinviata. La vita che esplodeva in mille direzioni trova canali in cui liquefarsi scivolando per pendici di storie che noi stessi abbiamo creato. Nulla si distrugge e nulla si crea, tutto si trasforma, e non è da meno la vita che ora prende forma.

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