venerdì 30 maggio 2008

Io sono curdo



Il suo nome curdo, Baran, che vuol dire pioggia, è il nome di una lotta per la propria identità, un nome e una lingua vietati fino a cinque anni fa, l'idioma di un popolo che non ha stato, che non ha istituzioni, che ha conosciuto e vive immense repressioni, un popolo che la Turchia come l' Iran così come l'Iraq vorrebbero annullare, cancellare, dimenticare; un popolo che resiste alle repressioni con la forza e con la memoria, e allora si adempie al dovere di non dimenticare innanzitutto con il nome, la propria origine e la prima consapevolezza di , tramite il proprio nome, perché ti accompagna tutta la vita, perché entra nella mente di chi ti incontra, perché ricorda e fa ricordare.

Baran ha circa 26 anni, studia Business alla Galatasaray Universitesi, ed è un degno rappresentante di quei giovani che lottano per il proprio futuro, è curdo e non si rassegna al mondo così come gli è stato dato, ma cerca di adattarlo alla propria immaginazione.

Baran viene dalla città di Diyarbakır capitale curda dell'omonima provincia che si trova nel sud-est della Turchia. Cresce lì, nella città il cui nome originario curdo è Amed, sulle sponde del fiume Tigri. Viene da una famiglia ricca e dotta di professionisti, ingegneri, dottori, psicologi, i genitori danno grande importanza alla sua educazione e lo seguono costantemente nei suoi studi, cosa non solita per chi viene da quella regione.
Baran viene dal Kurdistan settentrionale, la parte settentrionale di quello stato che non esiste, il cui popolo non è riconosciuto dallo Stato turco, la cui lingua e la cui musica erano vietate fino a 5 anni fa. Baran ha coltivato la sua identità sotto continue pressioni esterne che tentavano di annullarla. Una infanzia non facile, in una città abituata ad ospitare i rifugiati della provincia, i cui villaggi venivano bruciati e sgomberati dalle rappresaglie dell'esercito turco. Una città che ha decuplicato i suoi abitanti, in poco più di 10 anni, dedita per la forza degli eventi a non avere barriere con i suoi vicini, ma che faceva muro intorno a per proteggere la propria esistenza. Un'identità che nonostante secoli di attacchi, secoli senza stato, senza istituzioni è ancora lì, viva, resiste e si fa sentire.

E allora per capire il dolore di una regione, il dolore di una nazione, talvolta è più semplice avvicinarsi alla storia di una famiglia, la famiglia di Baran.
Il padre è stato la figura che nel bene e nel male ne ha segnato le vicende. Nadir Birgol è un ingegnere e fino a dieci anni fa lavorava per l'azienda pubblica di gestione delle strade a Diarbakir, i cui vertici, come spesso accade nelle grandi aziende pubbliche sono di nomina politica, e con cui entra in conflitto a causa della sua "lotta all'ipocrisia", infatti circa dieci anni fa viene trasferito per due anni in un' anonima cittadina vicina al mar nero, Kastamonu. Considerato pericoloso e sovversivo perché aveva fondato il primo sindacato della zona, diviene figura carismatica e combattiva per il suo popolo al prezzo di una lontananza dalla propria famiglia. Per due anni infatti tutti vivono distanti gli uni da gli altri, il padre nell'anonima cittadina, la madre rimane a Diyarbakır, e Baran va a Bursa per il liceo.

Anni non facili la cui evoluzione però, è migliore dell'inizio. Infatti il vento politico a Diyarbakır cambia, il partito dei curdi, a quel tempo DEHAP, poi bandito dalla corte costituzionale e dalle cui ceneri nel 2005 nasce l'attuale DTP, vince le elezioni locali, il padre può tornare e lavorare, la famiglia si riunisce sotto lo stesso tetto. Nadir Birgol infatti torna a lavorare per una municipalizzata di Diyarbakır, la municipalizzata dell'acqua pubblica per cui realizza un ambizioso progetto, un grande acquedotto per offrire in quantità acqua corrente, che ancora scarseggiava, agli abitanti della sua città. Una goccia di benessere, apprezzata enormemente dalla popolazione che proietta il padre di Baran nella carriera politica, fino a farlo diventare sindaco della sua città natale, Ergani, nella stessa regione.

Nel frattempo Baran superate le crisi adolescenziali, i dissapori con il padre per la sua "lotta all'ipocrisia", per la quale tutta la famiglia ha sofferto, cresce, prende posizione e decide di andare ad Istanbul, conoscere il mondo, crescere come persona, conoscere non solo come diritto, ma come necessità.

Per due anni lavora come giornalista per il più importante giornale turco, Zaman, a circa 20 anni raggiunge l' indipendenza economica, una propria vita ad Istanbul, e il mondo sembra stare ai suoi piedi. Ciononostante non è ciò che Baran necessita e cerca, in una vita in cui apparentemente ci sia tutto, in realtà manca di qualcosa. Infatti dopo due anni decide di tornare agli studi, la Galatasaray Universitesi, perfeziona il francese, diventa fondatore e gestore del club erasmus nella sua università, fino poi a fondare con altri amici la rete di associazioni erasmus in Turchia, l' ESN turco.

Quello di cui aveva bisogno erano le diversità, le aperture, il calore umano, la possibilità di rilassarsi per trovare pacificamente la propria strada, abbassare barriere per poter meglio scrutare l'orizzonte, per poter meglio guardare la faccia di chi si ha davanti. Quello che mancava era una vita da studente nel senso più edificante della parola, anni di formazione, anni di libera crescita, anni di vera vita. Abbandonare la ricerca di una migliore produttività e di un qualche status di realizzazione personale, per allungare la notte, per contemplare senza il bisogno di agire.

Può rilassare le proprie barriere, irte per difesa, per necessità, e dissolvere i propri tabù. In questi anni scopre quanto sia bello aprire la propria identità, condividerla e contaminarla. O forse scopre quale sia la sua vera identità, il pericolo di vivere in costante difesa del proprio stile di vita è che quello diventi l'unico immaginabile, il solo da perseguire, quello giusto da realizzare. In difesa di se stessi si rinuncia a se stessi, a tutti i potenziali io da realizzare. Fortunatamente le protezioni di Baran vengono sciolte non a caso da una ragazza, francese, che diventerà ed è tutt'ora la sua ragazza. La sua prima ospite erasmus, "Vaso", l'inizio di un cambiamento.

Baran spende gli anni dell'università circondato sempre da yabanci, stranieri che fa sentire a casa, con cui condivide amicizie, relazioni e progetti. Ha finalmente specchi diversi in cui riconoscersi, riconosce l'inutilità di barriere e divisioni, sogna un mondo, un' Europa senza confini di cui la Turchia possa far parte, lui cresciuto tra posti di blocco e repressioni ne rigetta la violenza e riconosce l'importanza della conoscenza reciproca. Denuncia la totale ignoranza con cui i cittadini turchi affrontano, o meglio decidono di non affrontare la situazione curda, con cui sminuiscono il problema. Baran è diventato così propositivo e costruttivo perché ha rigettato l'idea del muro, ha riconosciuto l'importanza del confronto, la bellezza di scoprirsi, la necessità di specchiarsi.

La conoscenza genera il dialogo e da esso è generata, la curiosità e la bellezza che l'attraggono diventano le migliori forze su cui far leva per avvicinarsi, la conoscenza è un diritto, è un dovere, un' imposizione, un bisogno, conoscere e far conoscere è il miglior modo per instaurare un dialogo, il dialogo è il miglior specchio che abbiamo. Anche se si proviene da una condizione di repressione e chiusura un contesto aperto dissolve gli assoluti e permette a chiunque di essere redento.


venerdì 23 maggio 2008

lunedì 19 maggio 2008

Io sono Sonia

Sonia è la prova più visibile e tangibile di quanto possano essere intrecciate, belle, forti e colorate le nostre esistenze, e quando dico nostre, intendo di noi persone di questo variopinto pianeta.
A guardarla ha i modi di fare di una ragazza francese, abbastanza silenziosa e riservata, dallo sguardo intenso e profondo che rivela però origini più complesse.

Sonia infatti è francese, ma non ha passato la maggior parte della sua vita in Francia, almeno non in quella che intendiamo noi, perché si sa il concetto di stato francese è cosa ben diversa. Infatti forse non tutti sanno che la Francia come eredità del suo passato coloniale conserva ancora i cosiddetti territori d'oltremare, nello specifico divisi in dipartimenti e collettività d'oltremare.
Terre considerate a tutti gli effetti territori francesi alla stregua di altre regioni europee e con tanto di euro.



A vederla bene infatti Sonia ha un che di esotico, un mix di eredità sanguinèe e appartenenze culturali, infatti è cresciuta in una piccola isola tra tartarughe, squali e lemuri, anche se la sua pelle scura viene da tutt' altra regione, o meglio da tutt' altra popolazione.

Tutto nasce quando il padre, lui sì francese, decide si svolgere il suo servizio militare come civile, insegnando nella città di Tizi-Ouzou, capoluogo nella regione della Cabilia, regione berbera di Algeria. Nella scuola di Tizi-Ouzou incontra una giovane berbera, anche lei insegnante, e futura madre di Sonia. Tra i due nasce un amore, consumato di nascosto, perché anche se forte della sua indipendenza l' Algeria non ama i francesi, specialmente se questi rubano le proprie donne, e specialmente se il padre è stato torturato e imprigionato durante la guerra di indipendenza perchè militava nel FLN, Fronte di Liberazione Nazionale, che portò all'indipendenza algerina nel 1962, dopo otto anni di guerra.

La relazione pertanto continua all'insaputa della famiglia di lei, fintantochè il padre non è costretto a tornare in Francia alla fine del suo servizio civile. Ma l'amore, si sa, non riconosce confini, passaporti o nazionalità, riconosce solamente la necessità di partire, per questo un visto studentesco è sufficiente, così lei raggiunge il sud della Francia dicendo addio al suo paese e alla sua famiglia per oltre 20 anni. La vita è fatta di scelte, e la libertà ha il suo prezzo.

Così in rotta con le rispettive famiglie inizia il vagabondaggio della giovane coppia che dopo un periodo in Francia riparte per il Senegal, per 4 anni, era il 1976, lavorando entrambi come insegnanti per lo Stato francese che ha mantenuto forti rapporti anche nelle ex-colonie.
Nel 1980 tornano in Francia per sposarsi, ma anche qui le cose non sono semplici se si ha un padre ottuso e razzista che non permette alla futura moglie del proprio figlio di mettere piede in casa. Così il matrimonio avviene solo tra amici, lontano dai parenti malpensanti. E' un periodo trascorso tra la Francia e l'Africa, tornano infatti in Senegal fino al 1986, per poi tornare in Francia in tempo per la nascita della loro seconda figlia, Sonia, classe 1987.

Da lì, non so cosa li abbia spinti a partire di nuovo con due figlie piccole, ormai sposati e maturi, per un posto ancora più lontano come Mayotte, una piccola isola che si trova a nord del Madagascar. Forse l'idea di far crescere le figlie in un piccolo paradiso terrestre, o forse la volontà di allontanarsi dalle proprie culture e famiglie, che hanno così ostacolato la loro vita. Fatto sta che Sonia è cresciuta in questa piccola regione, nell'Oceano Indiano, tra palme e lagune, molto più vicina al Sud Africa e al Polo Sud che all'Europa, sentendosi però francese, a tutti gli effetti.

Così all'età di 17 anni fa il percorso inverso fatto dai propri genitori, e torna in Francia per fare l'Università. Due anni a Tolosa per la scuola di preparazione, poi 2 anni a Parigi, dove completa la laurea di 1° livello e inizia il master in relazioni internazionali. Ha quasi 21 anni, ad un anno dal raggiungimento del titolo completo, molti viaggi alle spalle tra cui una internship in Messico, 4 lingue parlate, tra cui inglese, spagnolo e turco, e un buco nero per quanto riguarda il proprio futuro. Forse rimarrà ad Istanbul altri sei mesi, forse finito il master tornerà in Messico, forse in Europa, forse in Francia, sicuramente non a Mayotte, sicuramente non con i genitori. Una casa, un posto preciso per ora non c'è, il sentimento di nostalgia per ora non le si presenta, anche perchè farebbe difficoltà a rivendicarlo con precisione. Condannata ad un vagabondaggio, così come lo erano stati condannati gli stessi genitori; la storia si manifesta con onde lunghe, quanto sarà lunga per Sonia nessuno lo sa.


giovedì 15 maggio 2008

domenica 11 maggio 2008

Io sono Antoine


Antoine è un ragazzo parigino. Il suo taglio di capelli, la faccia da bambino, le scarpe di tela, l'orologio al polso, le polo di cotone mi facilitano l'associazione con Parigi. Occhi azzurri, capelli chiari, quasi biondi, si vede lontano un miglio che è uno yabanci. Antoine ovviamente studia alla Galatasaray Universitesi in lingua francese, classe 1986, e sta per finire il primo anno di master in relazioni internazionali, ciò che noi continuiamo a chiamare specialistica o laurea magistrale, anche se in tutta Europa è chiamata e considerata come un master, tranne che in Italia appunto, e la cui introduzione è avvenuta per armonizzare i sistemi europei.

Parla francese, un ottimo inglese, che per un francese non è così semplice, tedesco e si applica molto con il turco. Grazie ad Antoine ho scoperto più approfonditamente il sistema universitario francese. Quando li vedi studiare, sembra che ripetano aria fritta, legge appunti, fotocopie, qualche concetto buttato là, non ha mai comprato un libro nel corso dei 5 anni alla università, dice di studiare meno ora che al liceo, ma che alla università sia richiesta più capacità interpretativa, che il lavoro sia qualitativamente più alto. Mah.

Il primo pensiero è che ci sia un abisso tra noi, nel bene e nel male. L'idea che mi faccio è che sia un ignorante, studierà giusto i titoli dei libri, io avrò una preparazione di base sicuramente superiore. Ma poi non è così. E' preparatissimo su molti temi, l'idea è che studino tantissimo prima, arrivando all' università con un'ottima conoscenza di base, tantevvero che finito il liceo a 17 anni per chi vuole ci sono le scuole di preparazione all'università, per altri 2 anni, dove si studiano tutte le materie liceali di nuovo, tantissimo, con approfondimenti a seconda dell'indirizzo scelto.

Insomma la loro preparazione regge, anche se l'università dà un carico di lavoro decisamente inferiore al nostro, anche se hanno 4 mesi di vacanze l'anno, anche se concludono tutti gli esami non più tardi della prima settimana di giugno e l'università non riprende prima di ottobre. L' altra conseguenza di questo sistema è che sono completamente liberi per tutta l'estate e più ancora. Ma tale libertà va utilizzata, il sistema pretende anche che sfruttino questa grande quantità di tempo per lavorare, per le loro internship, hanno 6 mesi di internship obbligatoria nell'arco di tre anni, per fare esperienza, scegliere più consapevolmente. Antoine ad esempio due anni fa ha avuto la possibilità di fare la sua internship ad Haiti presso l'ambasciata francese, un'esperienza importante ed indimenticabile grazie e tramite la sua università.

Inoltre quello che capisci quando parli con questi ragazzi, e che impressiona uno studente italiano, è la precisione dei tempi. Non puoi finire l'università un anno dopo, non puoi metterci 6 mesi per scrivere una tesi, non puoi non laurearti in corso...L'Italia non trova riscontro all'estero.

Non esiste, i tempi sono stabiliti, non c'è una corsa al voto, un rifiutare un esame, un "guardi che per la tesi deve aspettare almeno un anno" e così via. Segui i corsi, dai gli esami, finito. Poi ti butti nella vita. Non esiste perdere un anno all'università. Cosa ormai considerata normale da noi, ci hanno abituato a svalutare il nostro tempo. Professori saccenti che rimandano sessioni di laurea di 6-9 mesi, esami, "sì non si preoccupi torni la prossima volta, tanto c'è tempo". E tanto noi mica abbiamo fretta, e di che? di finire quanto prima ed essere liberi di fare le nostre esperienze e scelte. Di finire l'università a 22-23 anni, ed avere il tempo, allora sì, di provare tutti i lavori che ci vengono in mente, di essere noi a decidere se lavorare o meno, non farlo stabilire agli altri, quando abbiamo 26-27 anni, l'acqua alla gola e bisogno di lavorare senza avere esperienza.

Antoine a 22 anni finirà l'università e avrà almeno altri due o tre anni di libertà quasi totale. Per capire che strada intraprendere, per viaggiare, perfezionare le sue lingue, impararne altre, girare il mondo, crescere interiormente, provare diversi lavori con la leggerezza di chi non ne ha bisogno per vivere, ma con la forza del giovane che vuole capire cosa ama di più, quale sia la sua passione. Avrà il mondo ai suoi piedi e farà una scelta più matura, più coerente, avrà l'energia sufficiente per realizzarsi.



Antoine non solo mi fa relativizzare l'importanza di quello che studio e l'importanza del mio tempo, ma mi fa anche ridere, ecco un gioco sui clichè europei e il suo blog per chi volesse rifarsi gli occhi con un po' di colori turchi, cosa che io ho deliberatamente evitato. Ancora per poco.

http://impressionsdistanbul.blogspot.com/


Il blog di Antoine ad Haiti



Les Inconnus- Les préservatifs

venerdì 9 maggio 2008

Amici francesi


Il francese è una lingua importante qui. I migliori licei, le migliori università sono in francese. Licei storici come il Galatasaray lisesi o la Galatasaray Universitesi. Edifici antichi, imponenti, pieni di storia, riferimenti per l'intero paese. La cultura francese, tramite le sue scuole, gli intellettuali turchi che hanno studiato in francese, la sua arte, ha contribuito a formare la parte moderna di Istanbul, ad esempio il nome originario della centralissima Istiklal, era Rue de Pera, il museo d'arte moderna di Istanbul è pieno di pittori turchi che tentavano di imitare i maestri francesi, così come molti scrittori che tentavano di riprendere lo stile europeo e in particolare quello francese nei loro romanzi.

La cultura francese insomma è un altro di quei tasselli del mosaico cosmopolita, metà moderno metà antico degli abitanti di Istanbul. Pertanto non potevano mancare anche tanti ragazzi francesi, attratti dalla possibilità si studiare nella loro lingua madre, e naturalmente dalla possibilità di conoscere meglio un paese il cui ingresso in Europa è stato osteggiato negli ultimi anni dal proprio governo, Chirac prima e Sarkozy poi. Spesso studiano relazioni internazionali, è lo studente straniero più comune, per la vicinanza al Medio Oriente, perchè la Siria o l'Iran è raggiungibile in treno, perchè la questione curda nel nord iraqeno è anche una questione turca. Ovvero perchè il conflitto medio-orientale è un conflitto vicino, dei paesi vicini, ed è un'occasione poterlo studiare così in profondità, nella propria lingua madre, portando il proprio contributo al dibattito proprio perchè investiti dell'autorità della lingua francese.

In questa foto sono tre, tutti studiano alla Galatasaray Universitesi, relazioni internazionali e filosofia politica. Sono diventati miei amici, mi hanno aiutato a capire meglio la cultura francese qui ad Istanbul, perchè la capitale cosmopolita turca oggi è anche questo, c' è anche molta Francia oggi, da ieri, forse anche nel futuro.

martedì 6 maggio 2008

Io sono Elif



Elif sfata tutti gli stereotipi associati alle ragazze turche. Guardatela e potreste riconoscervi una ragazza qualsiasi. Italiana, francese, spagnola o turca di buona famiglia. Ma ha qualcosa di diverso, ad esempio è sposata a soli 24 anni, parla 4 lingue ed già una donna in carriera.
Accasata sì, ma non con un matrimonio combinato, non con un turco, e non grazie al turco ma alla sua seconda lingua, il francese, Hugues, un ragazzo di poco più grande di lei che viene dal nord della Francia, uno Ch'tin, così come l'omonimo film.

La loro è una storia particolare, si sono conosciuti circa 4 anni fa in Francia. Lei si trovava lì per una internship, o uno stage come lo chiamiamo noi. Amore a prima vista. Anche se molto giovani, provenienti da due paesi diversi, con prospettive completamente diverse sino al loro incontro, decidono di costruire insieme il proprio futuro. Il rapporto dura un paio di anni a distanza, Hugues spesso viene ad Istanbul, anche perchè per lei è molto più complicato ottenere il visto di volta in volta. Al che ad un certo punto decidono di vivere assieme. Apriti cielo. I problemi non mancano, e non sono creati da loro due ovviamente, ma dalle famiglie.
Il padre e la madre preoccupati per la loro figlia maggiore, cercano di opporsi alla cosa. In loro è forte il pregiudizio anti-europeista e anti-occidentale, famiglie dissolute, decadenza morale, non potrà mai essere un buon marito, figuriamoci padre di famiglia. Un pregiudizio appunto. Così come noi possiamo immaginare un matrimonio turco, come un matrimonio combinato, in cui la donna non emancipata non ha scelta.
Un pregiudizio sfatato durante il loro primo viaggio in Francia. La famiglia di Hugues, è una vera famiglia Ch'tis del nord della Francia, non manca nessuno, dalla nonna, agli zii, ai piccoli cuginetti . I turchi sono sorpresi di cotanta accoglienza, calore umano da un paese così freddo, così europeo e che nonostante ciò tiene ancora in considerazione la famiglia, le cose veramente importanti.
Le ultime resistenze cadono, si apre una breccia, si convola a nozze, rito rigorosamente laico e sobrio tutto sommato, ma quel che conta qui è la sostanza. Tuttavia i matrimoni travagliati non sembrano finiti qui, non finisce qui per questa famiglia medio-borghese di Istanbul. Infatti la sorella di Elif, Filiz, incontra e s'innamora di un ragazzo americano, Zac, che da circa 3 anni vive qui. La relazione ormai dura da più di due anni, ma il padre non si vuole rassegnare a vedere sposata anche la seconda figlia con uno yabanci!
Il padre ufficialmente non sa nemmeno della relazione in corso della figlia, solo circa due settimane fa, Zac è stato ufficialmente invitato per una presentazione alla famiglia in un luogo neutro, la casa al mare dei nonni materni.....

Oggi Elif è una ragazza tutto sommato felice e serena, già profondamente proiettata sulla sua carriera e sul suo matrimonio. E' un ingegnere meccanico e lavora per un'azienda turca nell'indotto Fiat, che qui ha investito molto, un'azienda di medie dimensioni, ultra competitiva che dipende per alcuni fondamentali input dalla QF, azienda italiana del signor Barbieri unica nel suo genere, e per questo Elif pratica con me il suo italiano, perchè ovviamente a casa Barbieri si parla al massimo il dialetto.

La sua vita è stata profondamente influenzata ed è dipesa dalla conoscenza delle lingue straniere. Elif infatti ha studiato in uno dei migliori licei della Turchia, i licei dell' èlite, come il Galatasaray lisesi. Liceo in lingua francese, dove si studia anche inglese, tedesco e italiano.
La sua relazione è nata e si mantenuta grazie alla conoscenza del francese, che qui è una lingua molto importante. E' difficile trovare un buono studente universitario che non conosca almeno due lingue straniere. I migliori licei sono in lingua, così come le migliori università, francese, inglese, tedesco e anche italiano. Non è raro infatti trovare dei ragazzi di buona famiglia che abbiano studiato in un liceo italiano, o l'abbiano studiato come seconda o terza lingua.
L'uso e conoscenza delle lingue europee è fondamentale per essere meglio proiettati sul settore internazionale, per essere aperti all'estero, per essere competitivi e dinamici.

Il paragone con le migliori università italiane, fa quasi sorridere, da noi si combatte ancora per una conoscenza basilare dell'inglese anche laddove la letteratura è principalmente in lingua.
Allora la domanda sorge spontanea, sono questi giovani turchi dei geniacci, che vogliono diventare una piccola Cina del Mediterraneo o siamo noi italiani che siamo rimasti indietro di vent'anni?

Io sono Elif

venerdì 2 maggio 2008

1° maggio, la spettacolarizzazione della violenza



Primo Maggio, festa internazionale dei lavoratori, in Turchia come in Italia.
Ma in Turchia posso dire che hanno un diverso modo di protestare, anche perché la polizia ha sicuramente un modo diverso di mantenere l'ordine. Ieri é stato anche qui il Primo di Maggio, un giorno che annuncia sempre tensione e proteste. La città era completamente militarizzata e gli scontri largamente annunciati da settimane. Il motivo del contendere era far arrivare o meno la protesta nella piazza di Taksim, piazza simbolo della città, anche perché luogo di commemorazione dell' uccisione di circa 30 studenti, il 1° maggio di tanti anni fa appunto. Il Primo di Maggio, é un giorno per protestare contro il governo, un giorno in cui i sindacati e tutte le minoranze del paese, Curdi, Armeni, Omosessuali reclamano i loro sacrosanti diritti. Ma ciò che ha prevalso ieri é stata la spettacolarizzazione della violenza.



La manifestazione che mi aspettavo molto più grossa e partecipata, era formata da 20-30 mila persone forse anche meno e, quello che più mi ha stupito, erano completamente disorganizzate.


Nel senso che la prima cosa che si impara quando si partecipa ad una manifestazione é che:


- Innanzitutto deve essere chiaro il messaggio che si vuole lanciare, le persone oggi, ieri o domani per quale motivo stanno scendendo in piazza? Questo sicuramente non é emerso dal corteo, che non c'era, non uno striscione che aprisse la manifestazione, che picconasse la piazza, che raccogliesse sotto un'unica richiesta i vari gruppi scesi in strada. Uno straniero ieri osservava solo uno scontro gratuito tra polizia e manifestanti, senza logica se non quella di provocare, far vedere e sentire la propria rabbia, ma senza rivendicarla con alcuna proposta.




- La seconda cosa che s'impara specialmente se la manıfestazione é a rischio scontri, é che bisogna rimanere uniti, compatti, in corteo, sempre. Indietreggiare se la polizia carica, ma ricompattarsi quanto prima, e avere per questo un servizio d'ordine tra i dimostranti cosa ieri del tutto assente. Al minimo cenno di carica, o lancio di lacrimogeni, i dimostranti si frantumavano in gruppi di 20-40 persone, dispersi per le stradine intorno alla via principale, accecati dai lacrimogeni, e incapaci di riformare un gruppo, ma in balia delle voci forti di turno che indicavano una via piuttosto che un'altra. Certo le forze dell'ordine erano disposte in modo tale e hanno agito in modo tale da spezzare, interrompere continuamente il (pseudo) corteo.



Controllando interi quartieri che delimitavano la piazza di Taksim, con l'uso di idranti, mezzi pesanti e lacrimogeni di fatto hanno impedito di protestare in strada, hanno spezzato il corteo attaccandolo dai lati, e quindi impedito proprio di avere una manifestazione così come sarebbe stata concepita in una sana democrazia.

Ciò non toglie che sia stata un insuccesso a prescindere dalle forze dell' ordine, per il basso numero di dimostranti e la pessima organizzazione. Basti pensare che sono stati chiamati per questa occasione 18.000 poliziotti dal resto del paese, più 12000 già presenti, i quali addizionati al numero di giornalisti presenti faceva una somma sicuramente superiore al numero dei partecipanti.




Ma il messaggio prevalso sui media é stato uno spettacolo violento, con scontri, idranti e lacrimogeni, e gli arresti della polizia naturalmente. Difatti le foto comparse sui giornali sia italiani, che francesi che turchi, erano esattamente le stesse, atte a celebrare una giornata di piccola, sporadica violenza.


Talvolta il nostro desiderio di essere informati sulle vicende del mondo, di essere interconnessi, di partecipare con la nostra conoscenza e relativa presa di posizione va al di là della semplice realtà fatta di poliziotti annoiati e passeggiate al sole. Il desiderio di partecipare crea una domanda di notizie che deve essere saziata anche quando queste non ci sono, e quindi cerchiamo di spettacolizzare, rendere epico anche normali episodi. Tutti i fotografi, giornalisti, cameramen in misura spropositata hanno dovuto pur consegnare qualche cosa alle proprie agenzie o ai propri giornali. La notizia diventa più o meno importante e vera a seconda del numero riflettori puntati su di essa. Solo una notizia che può essere spettacolarizzata diventa reale.