venerdì 24 luglio 2009

Io sono un poeta


Hassan Laaguir è un poeta. Un poeta dell'apertura, del rispetto e del riconoscimento dell'altrui cultura, qualsiasi essa sia. Confrontandosi con la prepotenza culturale araba e marocchina, Hassan ha rivendicato con spirito ribelle pari dignità alla cultura berbera, la sua cultura, la cultura amazigh.

Il movimento amazigh, di cui Hassan è esponente, rivendica innanzitutto il riconoscimento della identità, cultura e lingua berbera, all'interno della Costituzione marocchina. Un movimento che intende riscoprire quel patrimonio culturale di usanze, leggi non scritte, e costumi che caratterizzano il popolo berbero. Un insieme di tradizioni che hanno solchi profondi e lontani in una società più laica rispetto a quella basata sulla sharìa, la legge coranica, imposta successivamente dal dominio arabo-musulmano. Una cultura berbera sommersa ed affogata dall'egemonia culturale araba-musulmana, dove la donna ricopre un ruolo subalterno, il divorzio è un diritto riconosciuto soltanto all'uomo, e dove l'Arabo è sancito come la lingua sacra.

Per questo Hassan è attivista di un movimento che mira a riaffermare un'identità, che tenta di valorizzare le donne in quanto perno della famiglia e vettori del patrimonio culturale berbero. Per questo mira ad affermare pari diritti e dignità a minoranze che spesso sono calpestate dal diritto di arroganza delle maggioranze.

L'utilizzo della poesia va di pari passo con la sua attività politica. Infatti, sebbene il movimento amazigh sia innanzitutto un movimento culturale volto a riscoprire, valorizzare e diffondere, la musica, la lingua e la cultura berbera, naturalmente il progetto, la visione, è politica. Un progetto di autonomia territoriale, di riconoscimento formale e costituzionale.

Hassan già durante il periodo universitario ad Agadir scrive poesie che legge ad un pubblico sempre più numeroso che fa da eco ad i suoi continui riconoscimenti. Dopo l'Università l'attivismo di Hassan si fa intenso, partecipa al Forum Universale delle culture di Barcellona e all' Indigenous Fellowship Programme dell' Unesco, nel 2004. Diventa presidente della sede locale di Agadir dell'associazione Taymanut, ed e' fondatore di ADUZ N TIDAF , associazione per lo sviluppo e l'ambiente. Sempre nel 2004 viene invitato da Azarug, associazione berbera indipendentista delle Canarie, ma viene bloccato e rinviato a casa dalla polizia di frontiera. Comincia a lavorare ad Agadir per l'Agenzia delle Entrate, in seguito a Rabat per una Ong all'interno di un programma di ricerca tra leggi e tradizioni amazigh. Poi la pubblicazione delle sue poesie, ed infine la borsa di dottorato all'università di Granada ed il lavoro con la Fondazione Euro-Arabe.

Periodo di lavoro intenso in cui concepisce un'idea di sviluppo e progresso abbastanza chiara, e che tenta di promuovere tramite le associazioni in cui opera. Dove sviluppo significa innanzitutto dignità e libertà. Dove non si rincorre il paradigma consumista occidentale, ma si cerca un equilibrio tra il giusto e necessario sviluppo materiale, e l'armonia con l'ambiente, tra le ricadute sociali positive delle zone oggetto di in vestimenti esteri e la conservazione di culture tradizionali. Uno sviluppo che coniughi i lati positivi della modernità e della tradizione, l'ambizione è trovare un equilibrio tra il paradigma dell'urbanizzazione, della libertà, dello sviluppo della cultura, e la vita da poeti di Inschaden.

Perchè in momenti storici di forti cambiamenti, come quelli che sta attraversando il Marocco in questi anni, scegliere la strada da seguire è un compito difficile a cui solo i diretti interessati possono adempiere, e tra questi, i poeti talvolta sono gli unici che possano fornire visioni armoniche di due mondi tanto diversi, vecchio e nuovo possono convivere solo grazie alla poesia che apprezza il presente ed il passato, ma invocando il futuro. Non a caso Hassan è l'unico della sua famiglia che ha compiuto un viaggio proiettato in avanti, negli studi, nelle idee, l'unico che per gli stessi motivi si preoccupa di tornare anche indietro, al passato e alle proprie origini. L'unico che fa visita e s'interessa ancora ai modi di vita dei nonni, l'unico che si preoccupa di come conservare e preservare la propria lingua, l'unico che già rifiuta il rumoroso e dannoso superfluo dello sviluppo occidentale, dalla televisione alla automobile. L'unico che ha preso coscienza del rapporto importante che l'uomo deve sviluppare con il circostante, dall' armonia con la natura a quella con gli altri uomini.

Una presa di coscienza che è stata possibile solo grazie al confronto con l'altro, chiunque esso sia ed in qualsiasi forma esso si presenti. Senza confronto, senza diversità, non possiamo nemmeno identificare noi stessi, noi da soli non esistiamo.

Hassan ha dovuto lavorare duro, con fervore e dedizione da artista, ha scritto, e scrive, per la dignità, perchè lo sviluppo diventi innanzitutto sinonimo di dignità. Poesie di orgoglio, poesie di speranza che dedica a coloro i quali vivendo in piccoli villaggi, fatti di vita semplice, vivono di poesia e la utilizzano incosapevolmente come burro sul pane. Poesie che dedica a coloro i quali non celebrano la giornata mondiale della poesia perchè vivono la poesia tutti i giorni, a coloro i quali rendono le cose semplici belle e poetiche. Poesie dedicate, a quella parte di se stesso con cui lotta per affermare la poesia, a quella parte di che preferirebbe sempre la via più facile.

Perchè evidentemente non tutto è stato facile, specialmente con un passaporto marocchino. Un passaporto che di certo non rappresenta un lasciapassare, anzi. Ne è esempio il rifiuto a farlo entrare alle Canarie, la perdita del primo semestre di dottorato a Granada perchè hanno tardato sei mesi a concedergli il visto.

Perchè sebbene Hassan sia come noi spinto da motivazioni simili, come noi con una condivisione di speranze e valori, come noi con sogni di felicità, la partenza ormai imminente ed il momento del saluto non sarà per noi, uguale a quelle già vissute con tanti altri europei. Una Europa che ha realizzato uno spazio senza frontiere per i suoi cittadini rimane ancora difficilmente valicabile per tanti che sono come noi, a volte migliori di noi, ma nati dall'altra parte. Le partenze come ogni anno si avvicinano, ma salutare un amico francese, spagnolo, tedesco, lituano o polacco non ha mai lo stesso sapore di un saluto marocchino o turco. E non è la distanza geografica a spaventarci, ma quella politica. Salutare ragazzi provenienti da questi paesi, vuol dire salutarli per molto tempo, un tempo indefinito a cui non è possibile dare limiti, distanze che non è possibile prendere per tempo. Una partenza che talvolta ha veramente il sapore dell'addio. Che non dà spazio a sorprese, lunghi week-end, o brevi visite. Salutarli fa comprendere che quello vissuto è stato solo uno spazio libero, una zona franca, e che non tutto libero è il mondo, almeno per ora. Ma noi, ci proviamo lo stesso.



venerdì 17 luglio 2009

Io sono Amazigh


In una città come Inchaden non esistono poveri, esistono solo potenziali poeti. Immaginare con le parole di Hassan la vita del suo villaggio di cultura amazigh, ovvero un villaggio berbero del Marocco meridionale, equivale a fare un salto non all'indietro, ma di lato nel tempo, semplicemente da un'altra parte. Come forse da noi era tanto tempo fa.

Nel piccolo paese comunità di venticinquemila anime si vive in un altro modo. Non è possibile parlare di arretratezza. Una forzatura. Arretrato è un sistema infrastrutturale che ambisce ad essere moderno ed efficiente. Arretrata è l'Adsl quando esiste il Wi-max, arretrato può essere un treno a carbone rispetto all'alta velocità. Arretrata è una automobile, una tecnologia vecchia relativamente ad un'altra che riesce a soddisfare bisogni simili o sostituti con maggiore efficacia, efficienza, economicità.

La vita ad Inchaden non è arretrata, semplicemente diversa. Sembra la messa in pratica di quell' ideale utopico descritto nel film francese La belle verte. Un film che riproponeva fortemente la tematica ambientalista ed una forte critica e messa in discussione di tutti i valori e strutture della società occidentale contemporanea.

Ad Inchaden, il concetto stesso di sviluppo, o progresso che sia, è assente. Perchè assenti sono i contatti con l'esterno, almeno fino a qualche tempo fa. In una comunità in cui non esiste la televisione, non arrivano i giornali, non c'è l'elettricità, si vive secondo ritmi interiori, biologici. Lo stesso concetto di tempo viene completamente rivoluzionato, o meglio ci si rende conto di quanto noi l'abbiamo rivoluzionato, ci si rendo conto del nostro di tempo.

Nelle case di Inchaden non esiste il tempo così come da noi suddiviso. Gli orologi non esistono, come non ci sono lancette che possano mettere pressione, creare anticipi o ritardi. Il tempo è solo il concetto utilizzato per spiegare e relativizzare la successione degli eventi. Il tempo esiste perchè mio fratello è nato nello stesso mese di mio cugino. Il tempo esiste in quanto io sono più anziano dei mie sei fratelli e più giovane della mia unica sorella.

Il tempo esiste in quanto esistono periodi del ciclo solare suddiviso per cicli lunari in cui le piogge diminuiscono e la temperatura aumenta, il tempo esiste in quanto noi pur restando fermi e apparentemente immobili, cresciamo lentamente in un eterno presente.

Ad Inchaden solo le nonne e le madri conoscono l'età precisa dei propi figli, nipoti e cari in generale. Le uniche che riescono ad orientarsi in maniera precisa nel lungo scorrere delle giornate grazie ad eventi tracciati da feste, occasioni particolari o ricorrenze lunari.
Perchè i compleanni non vengono celebrati, perchè non esistono calendari per farlo, perchè i mesi non esistono, esistono solo stagioni, periodi che sfumano lentamente l'uno verso l'altro. Il tempo nella sua calma diventa immensamente relativo, non più tempi oggettivi che possano coordinare persone, ma solo stati d'animo del corpo e della natura che regolano il proprio agire, che però è l'agire di tutti.

Una vita di altri tempi basata fondamentalmente sul concetto di comunità. Una comune inconsapevole. Quello che serve viene offerto dal vicino. Tutto è fornito da madre natura grazie al lavoro delle proprie braccia. Se hai bisogno di patate passi per il campo e chiedi patate, se tu coltivi carote donerai carote, se hai tante vacche da latte allora donerai latte. Per tutta l'infanzia di Hassan, che corrisponde a buona parte degli anni Ottanta, la moneta non era quasi utilizzata. L'eccedenza di latte della vicina, che prima era donata per non apparire avida agli occhi della comunità, ora viene invece venduta.

L'economia è di baratto ed autosufficiente, tutto viene messo a disposizione degli altri. Beneinteso che alter sia ben conosciuto. La fiducia reciproca è fondamentale. Se si prendono patate al di là della proprio fabbisogno, se non si dà in cambio il corrispettivo del proprio lavoro, se non si dona il proprio tempo, allora il meccanismo salta. E per questo rispettare le regole non scritte è fondamentale. Autotassarsi quando bisogna costruire una nuova strada, pagare le imposte per la moschea e la scuola coranica, partecipare alla organizzazione delle feste, così come alla preghiera del venerdì.

Tutti partecipano a proprio modo, il mezzo di scambio privilegiato talvolta in assenza di moneta diventano le uova, o si offre il pranzo all'imam, o si ricambia il favore di un vicino. La povertà ad Inchaden pertanto non esiste, quand'anche succedesse qualcosa il meccanismo di solidarietà sociale interverrebbe. A nessuno verrebbe rifiutato un pasto o un giaciglio per dormire. Come a quel tale a cui una volta rubarono il gregge che fu prima rimpiazzato da una autotassazione spontanea, e poi fu ritrovato grazie ad una rapida ricerca ad opera di tutti. La comunità è quasi utopica, la canalizzazione delle proprie azioni pressocchè totale.

Il bisogno cooperativo è fondamentale e rende necessario tutto questo, senza cooperazione, senza partecipazione non si potrebbe sopravvivere. Quando la divisione del lavoro si allarga, e la creazione di mezzi di scambio emancipa il proprio lavoro in maniera diretta da quello degli altri, il senso di comunità riappare solo con un nemico esterno, o con un evento comune.

Hassan cresce in questo contesto, in questo mondo e a questo modo, o quasi. Sebbene lo Stato Marocchino imponga le scuole elementari obbligatorie e gratuite per tutti, il piccolo berbero non è destinato alla scuola elementare, il padre di Hassan come tanti altri genitori di queste zone rurali corrompe chi di turno per non inviare il figlio a scuola, per non farlo contaminare con i contenuti dello straniero, con l'idioma che non sia quello della nonna. La stessa nonna che aveva posto il veto ad un insegnamento altro da quello della comunità, lontano dal mondo islamico, lontano dalla cultura berbera. Per non ritrovarsi un nipote che disconoscesse i valori familiari, per non avere un nipote che non portasse più rispetto agli anziani secondo gli antichi insegnamenti, ma che cominciasse a salutare come un ragazzo di città, un ragazzo istruito ed immorale: Slam N Uskali.

Perchè
Hassan è berbero, amazigh, ed una comunità può vivere in questo modo solo a patto di chiudersi, di vivere nell'autarchia totale. Che non si traduce solamente nel rifiuto della moneta, della compravendita, dell'individualismo, delle merci, ma nell'autismo sociale, nel rifiuto dell'altro. Dell'altro che possa contaminare la propria anima controllata e formatasi nel villaggio. Dell'altro che possa servire da cattivo esempio. Per cui l'istruzione è vista come un male da evitare, pochi nel villaggio sono istruiti, e quei pochi solo ad un livello elementare. Hassan è l'unico della famiglia mandato a scuola che ha poi continuato gli studi, l'unico su otto fratelli. Perchè nessuno è mai stato visto arricchirsi con l'istruzione, nessuno ha mai sentito il bisogno di arricchirsi.


Mandato alla scuola coranica tra i 4 ed i 7 anni, per sua fortuna si rivelò un pessimo alunno non adatto a ripetere a memoria ciò che ascoltava in un'altra lingua fotografando con gli occhi la calligrafia araba classica del corano. Per cui arrivato a sette anni, il padre decide di mandarlo nella scuola pubblica distante solo 4-5 km a piedi, nonostante il veto della nonna. Un'unica struttura di due aule che già ispirava diffidenza. Per l'archittettura diversa da quella del proprio villaggio, per i professori venuti da grandi città del nord, per i valori diversi che portavano con . Naturale andare con gli amici a lanciare i sassi, rovinare i muri ed i banchi di chi era considerato come un invasore. Era l'anno 1984.

Cinque anni dopo, finita la scuola elementare, avendo imparato a leggere e a scrivere, Hassan aveva ormai un'istruzione sufficiente per condurre una vita giusta ed onesta, degna di una famiglia onorata e rispettata, il resto l'avrebbe appreso al campo lavorando con il padre. Continuare gli studi era un'opzione nemmeno presa in considerazione, non se ne parlava proprio, e a che pro? Nemmeno la raccomandazione dei professori spinse il padre a cambiare idea, se non il fatto che il fratello più giovane di un anno venne bocciato, e si offrì di lavorare al posto di Hassan a fianco del padre: il rifiuto del fratello di finire le elementari liberò Hassan dal lavoro imminente nel campo che spetta ad un ragazzo di 12 anni.

Hassan venne così mandato al collége, nella città di Belifee, un percorso di 10 km da fare in bicicletta quattro volte al giorno per un totale di 40 km al giorno: lezioni la mattina, pranzo a casa, e lezioni il pomeriggio. Fermarsi lì a mangiare sarebbe costato troppo, e di moneta non ne girava troppa a Inchaden. Pedalata dopo pedalata il piccolo Hassan cresce fino a toccare i pedali della bicicletta comprata dal padre. Infatti, anche con una bicicletta troppo grande un piccolo berbero può far passare una gamba per il telaio e pedalare di traverso mantenendosi in equilibrio, almeno per un anno, il tempo che la crescita ti faccia arrivare ai pedali.

Al collegio a dodici anni, Hassan si rende conto che la lingua berbera non è parlata solo nel suo villaggio, che esistono comunità berbere in altri villaggi e anche in altri paesi. Pensa che l'Islam sia la soluzione di tutti i mali, e che il male e l'odio provenga dalla decadenza occidentale. Prime riflessioni di un ragazzino già destinato ad un cammino più ampio perchè spinto da autentico fervore, quello dei ribelli, dei rivoluzionari o dei poeti.


A sedici anni, nel 1989, terminato il collegio, Hassan è lanciato verso l'istruzione più alta, si aprono mondi prima di allora sconosciuti, giornali in lingua francese, spagnola, inglese, televisioni, radio. Hassan prende coscienza del mondo e della sua diversità. L'apertura è un meccanismo irreversibile, fatto il primo passo non può più tornare indietro. Vince una borsa di studio per il liceo ed in seguito un'ulteriore borsa per l'Università di Agadir, alla facoltà di Lettere.

L'apertura è avvenuta e nessuno la può evitare. Hassan apre gli occhi prendendo coscienza della propria cultura, e la difende. Partecipa al movimento intellettuale e politico del popolo berbero, diventa esponente locale della storica Tamaynut. Passi che può compiere solamente nel momento in cui ha relativizzato ciò che vede, quelli che erano i suoi valori. Nasce un poeta, destino inevitabile per chi proviene da Inchaden, la città dei poeti, un mondo che può partorire solo uomini tra uomini, oppure grandi poeti. Io sono Hassan Laauguir e sono un poeta.

mercoledì 15 luglio 2009

Io sono Hassan

Diritto alla Rete, no al decreto Alfano


Ieri gran parte della rete, i blogger, i cittadini, giovani e non, che esercitano quotidianamente il proprio diritto alla libertà di espressione hanno indetto una giornata di sciopero della rete. Il cosiddetto Obbligo di Rettifica introdotto da questo decreto, è solo una scusa per mettere il bavaglio al libero scambio di opinioni ed informazioni on line. Un meccanismo che crea di fatto disincentivi, timori, remore ad esprimersi liberamente e naturalmente.

Se ad esempio sostenessi su questo blog, vale per tutti "i siti informatici" anche amatoriali, che ad esempio Berlusconi è un corruttore, un puttaniere, un uomo che ha avuto contatti e non solo, con la mafia, un bugiardo, un uomo che pensa al bene proprio a discapito del bene comune di cui è gestore e padrone, che la Lega nelle sue proposte di legge è di fatti razzista, intollerante e xenofoba, che il sottosegretario alla Economia, Cosentino originario di Casal di Principe è il ponte tra camorra e Stato in Campania, potrei rischiare di offendere qualcuno.

Quel qualcuno potrebbe contestarmi ciò che dico ed accusarmi di diffamazione, in tal caso io sarei obbligato a "rettificare" le mie affermazioni entro 48 ore, rischiando altrimenti sino a 13 mila euro di multa. Una pena ovviamente sproporzionata per chi fa uso in maniera non professionale della rete, che viene equiparata così ad un qualsiasi testata giornalistica. Qui di seguito riporto l'appello lanciato alla libertà di informazione on line:

Per maggiori informazioni andate

su Diritto alla Rete
Punto Informatico per delucidazione su Obbligo di Rettifica
Guido Scorza


"Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da un susseguirsi di iniziative legislative apparentemente estemporanee e dettate dalla fantasia dei singoli parlamentari ma collegate tra loro da una linea di continuità: la volontà della politica di soffocare ogni giorno di più la Rete come strumento di diffusione e di condivisione libera dell’informazione e del sapere. Le disposizioni contenute nel "Decreto Alfano" sulle intercettazioni rientrano all'interno di questa offensiva.

Il cosiddetto "obbligo di rettifica" imposto al gestore di qualsiasi sito informatico (dai blog ai social network come Facebook e Twitter fino a .... ) appare chiaramente come un pretesto, un alibi. I suoi effetti infatti - in termini di burocratizzazione della Rete, di complessità di gestione dell'obbligo in questione, di sanzioni pesantissime per gli utenti - rendono il decreto una nuova legge ammazza-internet.

Rispetto ai tentativi precedenti questo è perfino più insidioso e furbesco, perché anziché censurare direttamente i siti e i blog li mette in condizione di non pubblicare più o di pubblicare molto meno, con una norma che si nasconde dietro una falsa apparenza di responsabilizzazione ma che in realtà ha lo scopo di rendere la vita impossibile a blogger e utenti di siti di condivisione.

I blogger sono già oggi del tutto responsabili, in termini penali, di eventuali reati di ingiuria, diffamazione o altro: non c'è alcun bisogno di introdurre sanzioni insostenibili per i "citizen journalist" se questi non aderiscono alla tortuosa e burocratica imposizione prevista nel Decreto Alfano.

La pluralità dell'informazione, non importa se via internet, sui giornali, attraverso le radio o le tv o qualsiasi altro mezzo, costituisce uno dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino e, probabilmente, quello al quale sono più direttamente connesse la libertà e la democrazia.

Con il Decreto Alfano siamo di fronte a un attacco alla libertà di di tutti i media, dal grande giornale al più piccolo blog.

Per questo chiediamo ai blog e ai siti italiani di fare una giornata di silenzio, con un logo che ne spiega le ragioni, nel giorno in cui anche i giornali e le tv tacciono. E' un segnale di tutti quelli che fanno comunicazione che, insieme, dicono al potere: "Non vogliamo farci imbavagliare".

Invitiamo quindi tutti i cittadini che hanno un blog o un sito a pubblicare il 14 luglio prossimo questo logo e a tenerlo esposto per l’intera giornata, con un link a questo manifesto.

Non si tratta di difendere la stampa, la tv, la radio, i giornalisti o la Rete ma di difendere con fermezza la libertà di informazione e con questa il futuro della nostra democrazia".

venerdì 10 luglio 2009

Infinita Bruttezza



“Si narra che tempo fa avessero le gambe corte. Ma oggi? Le bugie sono dei pilastri, e in quanto tali fatte di poderose colate di cemento. “ (cyop&kaf)




L’ITALIA PRESA A TRADIMENTO, ASSASSINATA DAI GIORNALI E DAL CEMENTO *

di Sara Di Bianco


In edilizia con il termine CEMENTO (o più propriamente cemento idraulico), si intende una varietà di materiali da costruzione, noti come leganti idraulici, che miscelati con acqua sviluppano notevoli proprietà adesive (idrauliche). La pasta cementizia (cemento più acqua) viene impiegata come legante in miscela con materiali inerti come sabbia ghiaia o pietrisco. Se il cemento si unisce con la ghiaia si crea la malta, se invece vi si unisce sabbia e ghiaia si ottiene il calcestruzzo, da cui poi il calcestruzzo armato (calcestruzzo più barre d’acciaio, comunemente detto cemento armato), che è il materiale da costruzione più impiegato al mondo).

La storia del cemento e dell’edilizia in Italia è storia di speculazioni e di menzogne, storia che si può far cominciare nel secondo dopoguerra, anni in cui il patrimonio edilizio aumentò vertiginosamente: nel 1951 erano stati costruiti 10,7 milioni di abitazioni, quasi raddoppiate nei 40 anni successivi, per arrivare a una cifra di 19,7 milioni di unità nel 1991 (fonte Censis).

Diversi sono stati i boom edilizi nel nostro Paese, ma clamoroso fu quello a tutti noto degli anni ’60 che, un po’ per l’arretratezza del nostro paese (nonostante il boom economico anni ’58-’63), un po’ per la rapidità con cui tutto si sviluppò, portò non pochi squilibri.

Da paese rurale ed agricolo quale era l’Italia, diventò un agglomerato di grandi sobborghi urbani e industriali dove il cemento cominciò a farla da padrone; La prima e tra le più gravi conseguenze fu la speculazione edilizia; mancava poi una legislazione urbanistica appropriata, e quelle poche norme, pur insufficienti che fossero, in molti casi non venivano rispettate: si costruì praticamente ovunque, non vennero risparmiate coste né piccoli villaggi, spuntarono case e alberghi come funghi (peccato che di funghi non si trattava!), ignorando spesso e volentieri le prescrizioni edilizie ed antisismiche: ca. 680mila alloggi risalenti a quell’epoca sono considerati di scarsa qualità tecnica e a rischio. I danni ambientali furono devastanti, e la “soluzione” furono le leggi tampone (legge 765 del ’67, anche detta legge ponte).


In particolare, nota dolente dell’urbanizzazione selvaggia furono i famosi “quartieri dormitorio”, frutto della legge 167 sull’ edilizia popolare, che portò alla costruzione di palazzine informi, grigie, scadenti e anonime, obbrobri ai margini dei centri urbani, privi di spazi verdi di servizi e di trasporti: l’effetto immediato fu l’emarginazione di numerosissime famiglie, con riflessi sociali non indifferenti.

Oggi, oltre all’eredità lasciataci dagli anni ’60, su 28milioni di case più del 20% (ben 6 milioni!) sono seconde e terze case; per lo più si tratta di speculazione edilizia, specialmente in zone turistiche costiere e montane. Nemmeno la Toscana, fino a qualche anno fa intatta, si salva da questo vortice di speculazione e colate. La Lombardia è praticamente desertificata, le sue imprese agricole sono circondate dal cemento. Ma il primo posto del podio lo occupa la Liguria, che in 15 anni ha edificato la metà del territorio libero; segue poi il sud: Calabria e Campania rispettivamente al secondo e terzo posto, con dati però incerti per l’alta percentuale di abusivismo. Le nostre coste sono sommerse da fogne e cemento, e nel 2007 sono state registrate quasi 4000 infrazioni (Mare Monstrum 2008). E, dulcis in fundo, l’Unesco sta valutando da qualche anno la possibilità di escludere molti dei nostri siti migliori dalla lista dei patrimoni dell’umanità.


L’Italia è il primo esportatore mondiale di cemento e il secondo consumatore (il primo è la Cina!!!). Nel 2007 l’Unità pubblicò un articolo in cui riportava i dati Istat della cementificazione in Italia: in 15 anni sono stati erosi 3milioni e 663mila ettari, corrispondenti grosso modo alla superficie del Lazio e dell’Abruzzo assieme, con una riduzione di 224mila ettari di aree verdi all’anno. Dal 1950 ad oggi abbiamo perso il 40% dei territori liberi nel nostro Paese, negli ultimi anni il consumo medio annuo è addirittura cresciuto rispetto agli anni passati, quelli del boom economico ed edilizio. Il tutto per la totale assenza di controllo degli ultimi vent’anni e perché l’unica legge urbanistica nazionale risale al 1942.

Vengono estratte 46milioni di tonnellate l’anno di cemento, per realizzare tale produzione occorrono ca. 500milioni di tonnellate di inerti da calcestruzzo e di marne e ca. 1miliardo di tonnellate di altri materiali necessari. Il tutto recuperato da cave illegali e abusive, e i cementifici inquinano, e scompaiono vigne, campi coltivati e boschi. E il loro posto viene prepotentemente occupato da villette a schiera, centri commerciali, uffici, palazzi privati e megaparcheggi.


Non c’è limite al brutto. E all’inutile.


E il paradosso è che il brutto e l’inutile diventano miracolosamente bello e indispensabile agli occhi dei molti, condizionati da tutte le belle parole e promesse di media e politici. Nelle liste elettorali spuntano soggetti con interessi nell’edilizia. Si pensa che se non si costruisce non si fa, non c’è progresso. E i programmi elettorali mirano a quello. Alle gare d’appalto si presenta sempre misteriosamente un unico pretendente. Berlusconi promette di non attuare nessun condono durante il suo (infinito) governo, ed ecco che con un colpo di mano arriva il quarto condono… E oggi l’edilizia sembra avere un nuovo boom (ma non c’era la crisi?!?), e niente viene risparmiato dalle inarrestabili valanghe di cemento…

Ad ogni condono edilizio un pezzo di Italia scompare (cit. ecoblog.it). I suoli agricoli muoiono e la campagna sparisce, e con essa i contadini. Quei pochi campi che ancora resistono, aspettano solo che qualcuno ci speculi su. Per non parlare della cementificazione dei corsi d’acqua, e delle gravi ripercussioni sulla loro fisionomia e sugli equilibri ambientali, con conseguente aumento del rischio di inondazione durante le piene… (poi ci si chiede perché le catastrofi naturali – terremoti, inondazioni.. - fanno tante vittime..)


Nel frattempo, la nostra piccola cittadina casertana, oltre che di discariche a noi ben note, gode anche di un contorno di cementifici che tra cave e ciminiere contribuiscono non poco al degrado di ambiente, clima e salute dei cittadini. L’attività di escavazione è un elemento integrante del ciclo del cemento, che occupa un ruolo predominante nell’economia del nostro paese. Da una stima elaborata da G.Messina (http://www.legambientecaserta.it/altro/Le_cave_a_Caserta.pdf) risulta che in Campania sono state censite 1114 cave di cui abbandonate 643 (57,71%), dismesse e sospese 353 (31,69%), mentre 118 (10,6%) risultano attive. Il danno ambientale stimato solo nell’area dei Colli Tifatini, fra cave attive e abbandonate, è pari ad oltre 7000miliardi! Nessuno ha calcolato il danno prodotto dall’attività di cava in Campania, ma vista la stima per i soli Monti Tifatini, questo è valutabile in diverse decine di migliaia di miliardi.

E a Caserta?


In provincia negli ultimi 10 anni c’è stato un incremento della popolazione residente del 6,44%, con un rispettivo incremento delle abitazioni non occupate del 50,59%, mentre in città l’incremento dei residenti è stato del 3,7% e quello delle abitazioni non occupate di ca. l’81%! Oggi ci sono ca. 7000 case non occupate, e il tasso di utilizzo delle camere d’albergo esistenti nel 2000 non ha superato il 30%. Ci sono attualmente 22 cave attive, con una produzione media annua di calcare pari a t 4milioni (di cui più del 55% dei monti Tifatini), e i cavaioli negli ultimi 10 anni hanno dichiarato di aver estratto ogni anno quantità di materiale di gran lunga inferiori a quelle reali. I due stabilimenti produttori di cemento (a Maddaloni e a Caserta) realizzano il 70% della produzione campana di cemento.

E diciamolo pure, che visti i numeri non c’è bisogno di nuove case… e né tanto meno c’è bisogno dei nuovi centri commerciali. E invece “la città, anche se la popolazione non cresce o cresce di poco, continuano a svilupparsi mangiando terreni, che se producono agricoltura o sono semplicemente paesaggio valgono poco, se invece si decide di costruirci sopra valgono di più.” (cit. Report, il male comune). Così viene stravolto il significato di ricchezza, così vengono stravolti i valori.


Sembra che dai danni del passato proprio non si voglia imparare nulla, e intanto i palazzinari continuano a ergere i loro templi di cemento continuando a far spuntare come funghi centri commerciali camuffati da centri polifunzionali e palazzine, in città che già brulicano dei monasteri dello spendi spandi condizionato e di case sfitte e vuote abbandonate a sé stesse, auditorium dove un auditorium c’è già e l’uso che se ne fa è quasi pari a zero…

E intanto le montagne continuano a scomparire, continuano a morire, e escavatori e ruspe continuano a sputare nubi di polvere cancerogena e mutogena nell’aria, compromettendo l’ecosistema circostante, ed ecco che la nostra fantastica tipica pietra calcarea locale subisce la metamorfosi: da sedimento, parte di una successione di strati che raccontano la storia geologica di un luogo, a mattone, parte di una successione di piani di uno di tanti palazzi che raccontano di come i pochi si riempirono (e si riempiranno) le tasche a discapito dei molti… Perché si sa, l’edilizia è solo un’opportunità di investimento per chi già possiede bei capitali. Perché si sa, chi ci guadagna sono solo i costruttori. E tutto va a discapito della nostra salute, di quella dei nostri figli, degli animali e delle piante, a discapito della giustizia e a discapito della salvaguardia dell’ambiente, a discapito di quel cosiddetto sviluppo sostenibile… un lontano ricordo? O un’allucinazione collettiva??

Ai posteri l’ardua sentenza!






fonti:

-Report, il male comune

-http://guide.supereva.it/scienze_della_terra/interventi/2005/07216930.shtml

-http://www.ecoblog.it/post/4620/foreste-perdute

-http://www.enricomoriconi.it/html/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=647

http://www.legambientecaserta.it/altro/Le_cave_a_Caserta.pdf



* Francesco De Gregori

lunedì 6 luglio 2009

Nola ed i suoi Gigli


La festa dei Gigli di Nola è antichissima. Ben più vecchia delle feste andaluse, meno conosciuta all'esterno, ma forse per questo ancora più vera. La leggenda vuole che la festa in onore di San Paolino, santo di epoca romana vissuto tra il quarto e quinto secolo e che fu anche vescovo di Nola, sia nata per ringraziarlo della liberazione dei suoi cittadini dalle catene barbare.

Durante le invasioni barbare alla fine dell'impero romano gran parte d'Italia fu saccheggiata e resa schiava, tra cui anche Nola, ad opera dei Vandali.
Gran parte della popolazione fu deportata tra cui lo stesso San Paolino sacrificatosi per salvare il giovane figlio di una vedova. Tuttavia, una volta arrivati in Africa settentrionale, i prigionieri Nolani furono liberati proprio grazie al suo vescovo che convinse il re barbaro, dopo avergli predetto la sua fine imminente e aver rivelato la sua identità, a liberare tutto il suo gregge. Al ritorno in Italia su navi piene di frumento, San Paolino fu accolto dai suoi concittadini con numerosi gigli e portato da quel momento in poi in processione, tutti gli anni.

Leggenda a parte, gli storici invece vedono nella festa che coincideva con il solstizio d'estate, la cristianizzazione di un rito pagano che doveva essere un buon auspicio per i raccolti futuri. Infatti, non sarà un caso che S.Paolino cade proprio il 21 di Giugno. In ogni caso, qual che siano le vere origini della festa questo forse poco importa ai Nolani stessi che la vivono come il momento più atteso dell'anno, l'inizio stesso di un nuovo ciclo di vita. Un evento che ha assunto nel tempo un altro carattere, una miscela di sacro e profano che rende la festa un momento catartico: una purificazione dell'anima tramite rappresentazioni collettive di forza, abilità, partecipazione, bellezza. Bellezza a cui tutti contribuiscono creando il rango dell'opera d'arte collettiva, vivente. Una elevazione spirituale che al ritmo della processione dura tutta la notte.


Rimane incredibile il fatto che una festa di tale forza e tale storia non sia conosciuta nemmeno nelle città circostanti, nei centri napoletani o casertani, nelle campagne che distano pochi chilometri. Forse ancora una volta è la prova di quanto sia frammentato, ricco, il nostro territorio, dove intere città con sacche culturali distinte vivono in maniera parallela, per fortuna, direi. Infatti, la festa rimane un fatto quasi privato, esclusivo della comunità nolana e delle reti di paesi che storicamente vi partecipano, zoccoli duri di persone che la vivono da secoli con grande passione. Ma tale intimità non è chiusura, anzi. Una comunità che appare sana e coesa proprio grazie alla festa, grazie ad un fortissimo fattore di indentificazione e di appartenenza, ha meno rimorsi e complessi ad aprirsi al visitatore straniero.



La festa che apparentemente dura solo due giorni, in realtà richiede un lavoro costante per tutto l'anno. Il maestro di festa che ogni anno alla fine della festa riceve l'onore di organizzare il giglio della festa futura, procede ad organizzare la paranza, contattare la banda ed il costruttore che per l'occasione costruirà il giglio, oltre ad un poeta che ha l'onere di comporre nuovi versi da cantare durante la processione in segno di fede e devozione a S. Paolino. Quindi ogni anno tutto viene ricostruito ex-novo, i gigli che sono otto ed i cui nomi si rifanno alle diverse ed antiche corporazioni di mestieri della città, muovono una buona parte dell'economia nolana. C'è chi dice anche che l'economia di Nola si regga sulla festa dei Gigli. I fondi inoltre vengono raccolti tramite le questue, grandi banchetti organizzati dai comitati di ciascun giglio allo scopo di raccogliere le offerte dei Nolani. Una festa pertanto autofinanziata ed indipendente, ciò anche la rende tanto partecipata.

I gigli, strutture in legno alte 25 metri sono ricostruiti ogni anno, e "vestiti" ogni volta in modo diverso, imitando stili barocchi, gotici, o design moderni, sono portati in spalla da centinaia di portatori, o meglio "cullatori", che costituiscono le paranze di ciascun giglio. Giovani e non, fanno ballare il giglio in onore di San Paolino. Il Capo-paranza che dirige questo centinaio di uomini intona ordini dal linguaggio strettamente nolano. "Uagliu' , seguite 'a ' simmetria, appresse' a ' destra' mia!" intendendo di girare su se stessi verso destra, o chiamando sull'attenti, o ancora "Vai con la seconda" intendendo che alla fine del secondo ritornello i cullatori devono alzare il giglio. Infatti alla base del giglio, ma su di esso, c'è un'intera banda il cui peso è portato dai cullatori: fiati, pianola, chitarra, batteria, due cantanti neo-melodici e una ragazza che trascinano i comitati e la folla.

Il cerimoniale è preciso e si ripete da secoli. Il sabato seguente il 21 giugno, i gigli vengono esposti in piazza e la sera i comitati rendono omaggio cantando e ballando dinanzi a ciascun giglio prima della processione della domenica. La domenica mattina ci si riunisce in piazza Duomo, tra il Duomo ed il Municipio, per rendere saluto al proprio santo che per l'occasione esce dalla chiesa per recare omaggio a tutti i gigli tramite un giro della piazza. Dopo anche la benedizione ed il discorso del vescovo, c'è la pausa pranzo, il necessario ricarico energetico prima dello sforzo che si protrarrà dal pomeriggio sino alla mattina seguente.


La processione comincia nel pomeriggio per poi durare tutta la notte sino alle dieci del mattino seguente, instancabilmente, in un vortice di energia. Resistere alle musiche e al ritmo delle bande è impossibile, ballare è necessario, stare fermi sarebbe un'offesa alla forza di chi culla un giglio di 25 metri, trascinato per i vicoli più angusti, che gira su se stesso per omaggio al santo e alla propria città.


Perchè il punto fondamentale è questo, che i gigli sono una festa di Nolani per i Nolani stessi. I gigli di Nola sono i suoi abitanti, i veri fiori di questa terra. Un territorio problematico, ma che in occasioni come queste dimostra che la forza del riscatto è possibile. Lo si nota nella gentilezza dell'uomo delle granite, del venditore di pizzelle, nei commercianti che si sentono parte integrante della festa e non speculatori occasionali. Un territorio che dimostra che il senso di comunità è ancora forte, lì dove esiste e resiste è una ricchezza, capitale umano collettivo, una leva su cui poggiare per raggiungere fini comuni. Un territorio coeso può decidere più autorevolmente di se stesso, accogliere più facilmente, vivere più serenamente.




L'entusiasmo dei Nolani che magicamente si ripete e si ricrea ogni anno è uno specchio, uno specchio di loro stessi, di quanto c'è di sano in ognuno di loro. Nola nella sua festa vede se stessa. A differenza della semana santa dove tutte le energie positive e l'amore vengono catalizzate nei simboli, nei volti lignei di madonne bellissime, qui chi viene portato in processione sono uomini portati da altri uomini celebrando l'amore di Nola verso il suo santo, ma esprimendo in realtà l'amore della comunità verso se stessa. Uomini, non simboli, l'interazione con la gente è continua e reale, la chiamano ancora processione, ma è una vera e propria festa con i caratteri della feria. I balconi sono pieni, nessuno dorme, tutti partecipano, la comunità si abbraccia e si riconosce nel momento della festa.


Sacro e profano finalmente uniti. Nessuna ipocrisia, nessuna dicotomia della vita. Alle urla di W S.Paolino e W Nola, la festa esprime tutta la sua passione, ed il legame con la terra. Nello sforzo dei cullatori Nola vuole vedere la propria grinta, il proprio attaccamento alla vita. S.Paolino è un parafulmini, una punta argentata che sprigiona e attrae a tutte le energie positive dei Nolani. Il fattore religioso legittima la tradizione, il cerimoniale, la sacralità, il discorso del vescovo, ma quello che prevale è l'anima contemporanea di un'antica comunità.


In un'Europa dove sempre più spesso si assiste allo svilimento di feste antiche, trasformate in attrazioni turistiche, in parchi tematici, qui rimane un qualcosa di essenzialmente vero, reale, anche se fragile oggi. Parlando con un Nolano si ha un'altra visione del tempo: la festa è sempre stata e sempre sarà. Lo spirito della festa è forte e profondamente radicato, ma la forte comunità che resiste inconsapevole su una rocca al passare del tempo rischia di sciogliersi, come è già avvenuto in tante altre città vicine, un tacito patto che va rispettato e che deve essere portato avanti. Il declino della festa di Piedigrotta di Napoli ne è un esempio, una festa che ha partorito canzoni come O' Sole mio e che vantava origini millenarie è caduta in declino negli anni Sessanta, e si sta ora tentando artificiosamente dall'alto di riportarla in vita. Un declino che rispecchia il declino e la distruzione del tessuto sociale della città.

Una festa non è mai solamente una festa, non è solo un esempio di folklore, ma lo specchio di una comunità, se questo fattore di coesione sociale cade, viene meno anche il suo implicito patto sociale, se ciò avviene l'imbarbarimento è dietro l'angolo. La festa è uno specchio in cui ammirare l'immensità, la quantità di energia sprigionata che produce bellezza unica, estasi collettiva, e oggi, vorremmo rispecchiarci di più in queste parti sane di paese, non vivere di semplici riflessi.