sabato 31 luglio 2010

Uno sguardo ad Est



Per la prima volta ad est senza trovarmi a sud. Finalmente in un paese che si trovava al di là del muro e che forse si sente ancora un po' disorientato.

La Bulgaria è un paese che solo ultimamente ha ritrovato la sua indipendenza dopo lunghi secoli di dominazioni straniere. Similmente alla Polonia, sempre contesa tra Germania e Russia, la Bulgaria è uno di quei paesi spesso considerati più come territorio di conquista che autonoma espressione di diritti civili e politici. L'inizio della storia bulgara può risalire ai Traci che abitavano queste terre sino alla prima occupazione romana, è proseguita con l'arrivo delle prime "vere" popolazioni bulgare in senso moderno nel settimo secolo che hanno costruito un paio di "imperi" bulgari alternati alle influenze bizantine per poi soccombere, poco prima di quest'ultimi, a cinque secoli di dominazione turco-ottomana, fino al 1878. La breve indipendenza è continuata dopo la guerra nell'area di influenza sovietica che ha segregato la piccola nazione dietro la Cortina di ferro per oltre quarant'anni. La libertà politica è stata ritrovata negli ultimi venti anni, ma come un gattopardo italiano la classe dirigente sembra aver cambiato solo d'abito.

Nonostante ciò i Bulgari hanno coltivato una propria identità e un carattere nazionale ben definito, un mix di cultura slava, influenze turche, greco-ortodosse ed espressioni autoctone. Caratteri semplici di un paese abituato dopo decenni di comunismo ad una vita leggera fatta di poche ma basilari scelte. L'impressione che ho ricevuto è quella di un paese ancora rurale e gentile nell'animo, semplice nei modi di fare, nel ricambiare sorrisi e cortesie, nei cenni di capo al contrario e nel linguaggio del corpo, ancora non abituato a scelte rese complicate dagli eccessi consumistici, ma fin troppo obbligate come quando si compravano i pantaloni durante il regime comunista.

Quando la carenza di scelte più simile ad una costrizione conduce al rifiuto.

Durante il comunismo esistevano due tipi di pantaloni per entrambi i sessi, la scelta pertanto non era difficile: delle due l'una. Tuttavia la prima difficoltà consisteva nel riuscire a comprare i pantaloni senza trovare la saracinesca abbassata: essendo i negozi di fatto degli spacci statali in cui il personale era costituito da dipendenti pubblici, dato che non era ammessa l'iniziativa economica individuale, questi sottostavano ad orari di ufficio come tutti, e poichè si sa sotto il comunismo lavoravano tutti ed il proprio orario coincideva con quello dei negozianti ecco che di fatti era praticamente impossibile acquistare un paio di pantaloni negli orari consentiti. L'unica soluzione pertanto rimaneva uscire dal lavoro con una scusa, fare le dovute commissioni e rientrare frettolosamente interrogandosi se si lavorava per vivere o si viveva per lavorare.

Non a caso una delle battute più ricorrenti al tempo era "Noi facciamo finta di lavorare, ma loro fanno finta di pagarci".

Ma la seconda difficoltà, quella vera, era costringersi a portare pantaloni e abiti che tutti quanti avevano, un'intera nazione blu o marrone, ovvero forzarsi ad indossare una divisa.

Si cercava quindi di creare una originalità che dall'alto era vietata: distinguersi era una necessità affrontata cucendo e ricamando i propri vestiti così alimentando quel desiderio di evasione dalle scelte di regime. Caduto il Comunismo, oggi come allora, il desiderio di evasione sembra concretizzarsi nella ricerca di status occidentali, dalla macchina, al televisore, alla casa oppure rincorrendo il desiderio di perfezione segnalato dai numerosi poster giganti di chirurgia estetica che promettono seni perfetti e ricordano che "la bellezza è simmetrica", uccidendo definitivamente quel poco di ribellione sopravvissuta all'omologazione forzata.



Il ricordo di questa costretta semplicità è ancora vivo in un paese che ha vissuto duramente la transizione al Capitalismo che, chiudendo tutte le imprese ormai troppo vetuste per stare al passo con i tempi, ha creato una grande disoccupazione ed un esodo di massa della popolazione.


Come in tutti i paesi ex-comunisti l'arrivo del Capitalismo ha rappresentato una disillusa attesa di sviluppo che ha toccato l'apice con l'ingresso nell'Unione Europea e il boom edilizio degli ultimi anni. La politica appare corrotta ed incapace, l'apertura delle frontiere ha provocato una grande fuga di massa e le generazioni a cavallo tra due ere, troppo vecchie per ricominciare o per dimenticare, vivono l'idea del progresso in cinica attesa.


Non così i giovani, che come sempre sperano e credono nell'opportunità rappresentata dal giusto compenso del proprio lavoro, nel miglioramento dovuto, idealizzando anche l'idea del successo e del Capitalismo rappresentato da una concorrenza perfetta di un mercato atomistico e meritocratico.

Non si può dire che questo sogno sia stato completamente tradito, non ancora, per molti la vita è cambiata radicalmente, ma l'attacco alla mediocrità ha schiacciato verso l'alto o verso il basso le grandi masse di lavoratori e per le strade in cui la vita si sviluppa in verticale l'entusiasmo ha lasciato da tempo il posto ad una cinica melanconia riflessa in vecchi tram scollegati da ogni distanza.

Entrare nei pensieri dei bulgari non sembra facile, l'aspetto riservato e indifferente in realtà è una maschera che si scioglie alla prima domanda, l'ospitalità incontrata lascia immaginare tensioni forti tra quello che si ha dentro e quello che appare all'esterno.

Un indizio lo si ha entrando nelle case raffreddate solo dai colori poco accesi dei palazzi: quando la melanconia cala come una nebbia tra i tetti restano illuminate solo le finestre dei piani più alti, quelli che vogliono mantenere una vista sulle stanze della città ben visibili alla luce gialla di vecchie lampadine. Balconi illuminati al calare della sera che possono raccontare più di tanti libri di storia.


Un vecchio parla con amore al proprio gatto, sussurrando come ad un vecchio amico confidenze da fine giornata, qualcuno prepara sui fornelli della stipata cucina la cena da consumare fugacemente davanti al televisore, il solito uomo baffuto ed in mutande adesso dipinge la camera da letto calcolando il giusto numero di passate di vernice. Scene di vita quotidiana offerte al passante di turno arricchite da bambini che quasi al buio tentano di far volare un improbabile aquilone dimostrando che è possibile rompere il grigiore del cemento con la vita che vi scorre dentro.


L'odore della cena, la porta che si apre, il piccolo Bobby che corre urlando "Tati Tati!!!", mi ricordano che anche se per poco anch'io faccio parte del panorama. Iskren è tornato dal lavoro, giornata dura glielo si legge in faccia, ma il sorriso che gli strappa il piccolo munito di pannolino sembra dare senso alla giornata.


Ad ospitarci è una giovane famiglia, Iskren, ingegnere informatico, sua moglie Giulia, avvocato, ed il piccolo Bobby che ha già capito come sorridere davanti ad una macchina fotografica.

Fanno parte di quei bulgari giovani che con un sospiro di sollievo parlano di quello che è stato, con dolcezza di quello che oggi hanno e con un sorriso che pecca di modestia immaginano il futuro.

domenica 25 luglio 2010

Casa ed Indentità


Una casa equivale ad avere una coordinata principale, un punto rosso sulla mappa, una bandierina alla quale aggrapparsi. Cercarsi una casa è il primo passo per l'affermazione e la costruzione dell'identità, oggi come ieri. Vuol dire scegliere dove proseguire la propria vita ed eventualmente come.

Rappresenta la meta di qualsiasi viaggio, il successo di ogni ritorno. E' la spinta di chi ancora non si è fermato. Come mi disse Yoshi, un contadino cinese allora trentenne che viaggiava da circa tre anni con mezzi di terra dopo aver attraversato 24 paesi e tre continenti, "dopo aver attraversato tutte queste vite, ora voglio iniziare la mia".

Ovvero cominciare a costruire per lasciare qualcosa ai posteri, che siano parole, immagini, ricordi, figli, manufatti. Il senso delle grandi cose si può racchiudere in questi, in apparenza semplici, obiettivi che nascono e fioriscono partendo da una casa.

Oggi di case se ne attraversano tante fortunatamente, vicine e lontane, solitarie ed affollate, familiari e sconosciute, ti segnano aiutandoti a capire cosa non vuoi diventare e di cosa sentirai la mancanza. Ogni casa, come una persona è legata ad una storia molteplice, a degli eventi dell'animo. Le case, vissute al pari degli amici, non si possono dimenticare e costituiscono la nostra costellazione di riferimento, fatta di abitudini, odori e rumori mattutini. Per questo quando si ritorna a "casa" in realtà s'intende il gruppo di case a cui puntualmente ci ripresentiamo, lasciando intendere che il ritorno a "casa" coincida con una porzione di territorio più vasta delle quattro pareti domestiche.

In Italia sicuramente questa identificazione tra "casa" e gruppi di case è molto stabile, quasi una certezza, gli Italiani hanno un primato rappresentato dal numero di proprietari di casa. In base ai dati Istat infatti circa sette famiglie su dieci sono proprietarie della casa in cui abitano. Solo due famiglie su dieci pagano l'affitto, e circa un dieci per cento vive in usufrutto o a titolo gratuito, casomai nella seconda casa dei suoceri.

Un popolo di sì fatti proprietari immobiliari si evince dalla cura con cui vengono manutenuti gli interni della abitazioni oggetto sempre dei principali investimenti, prima entità di spesa per le famiglie e tra i beni più importanti che i genitori cercano di lasciare o donare ai figli. Invece quando la casa non è di proprietà i mobili sono vecchi, le opere di manutenzione vengono rinviate, c'è indifferenza verso un muro sporco.

Una tale situazione dovrebbe alimentare anche un'altra attitudine: l'attaccamento al territorio. Il possesso della casa dovrebbe portare ad un naturale slancio verso il circostante, ad un presidio del territorio in cui si vive e in cui vivranno i propri figli, ma troppo spesso la contraddizione è stata di ripiegarsi sulle mura domestiche contenti del proprio salotto ed incuranti del paesaggio alla finestra che veniva rovinato, appunto da case altrui.

In Istanbul, Orhan Pamuk ripercorre tutte le case della sua vita ritessendo la tela delle storie che ha attraversato e che si sono intrecciate tra loro e con quella della città. Descrizioni di abitazioni ricche di ricordi in cui giocano un ruolo principale le immagini dalle finestre, dai balconi e dai davanzali, un viaggio segnato da immagini primordiali ed indelebili come il conteggio delle navi sul Bosforo, lo sguardo gettato dall'alto sulle strade, finestre che si aprono su intimi paesaggi ricordando che la prospettiva data dalla propria finestra di casa è una prospettiva sul mondo.


Nel numero di Aprile della rivista l'Europeo, dedicato alle case degli Italiani, l'articolo di apertura di Aldo Colonetti dice :

"quando superiamo la soglia della nostra porta è come se esistesse un confine netto, due mondi diversi, tra il fuori e il dentro, tra il luogo dei nostri affetti più cari e gli spazi collettivi, le strade, i servizi; insomma, in generale, il territorio degli altri".

Per cui spesso si passa la cera sul pavimento di casa rimanendo indifferenti al marciapiede antistante pieno di buche e merde di cani. Si è persa la sana abitudine di spazzare i vicoli che, trasformatisi in strade di scorrimento, sono di tutti e di nessuno. Si è perso il concetto che il vicolo rappresenta.


"Quando una tradizione non è in grado di trasformarsi in un sistema di regole riconosciute, il territorio, la vita collettiva, il rispetto della storia inteso come humus dal quale prendiamo ispirazione non riescono a porsi al centro delle scelte strategiche e della vita collettiva. [...] Perché siamo abituati, come direbbe lo studioso Aldo Bonomi, a guardare più alle storie particolari che agli spazi collettivi, più alle nostre abitazioni che alle piazze dove tutti i giorni transitiamo distratti, in attesa di ritornare a casa ".

In altre parole l'Europeo sostiene la tesi di una rottura tra etica pubblica e privata: lo spazio privato ha maggior valore e va tutelato anche a costo di sacrificare quello pubblico. Due valori posti in antitesi ma che non devono necessariamente esserlo. Nessuno chiede di rinunciare al proprio spazio privato (e la conseguente libertà) in favore di quello pubblico, si può distruggere quello pubblico in nome di una lottizzazione degli interessi privati. Per sanare questa frattura sono sufficienti delle regole.

Se bisogna cominciare a costruire qualcosa, pertanto, viene naturale cominciare dalla "casa", nuova o vecchia che sia, e dal suo significato.

E' naturale ripartire dal piacere di tornare, di restare, di assaporare i propri pensieri, di ascoltare chi ha qualcosa da condividere. E' il piacere di sentirsi sicuro tra mura in cui non è necessario essere indiscreti. E' il luogo da cui ripartire ogni volta che si deve ricominciare, il campo base di riferimento anche per chi pensava di farne a meno.

La casa è il luogo pacifico che permette lo sviluppo del pensiero dopo l'esperienza del viaggio.
E' la finestra sul territorio che costituisce la nostra identità, senza la prima non si può arrivare alla seconda, è il luogo in cui si consolidano i rapporti che costituiscono la mappa delle nostre relazioni e quindi di noi stessi.

Perché in definitiva l'altro scopo di questo blog è capire dove stiamo andando, quindi quale sarà la nostra casa, come la possiamo scegliere, come la vogliamo e dove. Ovvero tutte le domande che si ripresentano ad ogni generazione che dalla gioventù passa alla maturità, le stesse domande che si presentano anche a questa generazione aperta e globalizzata che formulerà risposte nuove a domande vecchie. Cercando di vedere attraverso la finestra qualcosa di cui andare fieri.


domenica 18 luglio 2010