domenica 28 novembre 2010

L'artista secondo Camus, Discorsi di Svezia


"Personalmente, non posso vivere senza la mia arte. Ma non ho mai posto l'arte al di sopra di tutto. Se mi è necessario al contrario, è la cosa che non mi separa da nessuno e mi permette di vivere, così come sono, con tutti. Ai miei occhi l'arte non è una gioia solitaria. E' un mezzo per emozionare il più grande numero di uomini offrendogli un'immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie comuni. Obbliga quindi l'artista a non isolarsi; lo rimette alla verità più umile e universale. E colui che, sovente, ha scelto per il destino di artista perché si sentiva diverso, apprende presto che non nutrirà la sua arte, e la sua differenza, che confessando la sua somiglianza con tutti.
L'artista si forgia in questo perpetuo andirivieni tra e gli altri, a metà strada dalla bellezza che non può evitare e dalla comunità alla quale non può strapparsi. E' perché i veri artisti non disprezzano niente; si obbligano a comprendere invece di giudicare. E, se devono prendere un partito in questo mondo, non può che essere quello di una società dove, secondo le grandi parole di Nietzsche, non regnerà più il giudice, ma il creatore, che sia materiale o intellettuale".


Albert Camus, Discours de Suède,
Editions Gallimard, 1958 (traduzione mia)

mercoledì 17 novembre 2010

Cristo si è fermato ad Eboli, un metodo empatico



Cristo si è fermato ad Eboli è un libro dal contenuto antico e dal metodo ancora non superato. L'ho cercato dopo aver attraversato la Lucania bruciata dal sole, l'ho trovato per approfondire le impressioni nate dalle visioni del mondo perduto di De Seta, l'ho usato per riflettere su quanto già detto a partire da Orgosolo.

Mi convinco di aver preso il libro giusto dall'incipit della prima pagina dove Levi descrive il mondo che si appresta a rievocare: "un mondo serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte"(pag.1).

Emerge subito l'impressione di entrare in un mondo duro, in una società ferma e immobile sempre uguale a se stessa, avulsa dal resto del Mondo, che ignora cosa sia la Storia:

"Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile"(pag.2).

Un incipit che mi ricorda quello del film di De Seta, Banditi a Orgosolo, che ha reso con le immagini quello che Levi ha reso con la scrittura: catturare e descrivere mondi nascosti e sconosciuti che hanno rappresentato ai più la vera vita, per secoli. La differenza tra i due sta nelle sfumature che Levi riesce a trasmettere con maggiore attenzione grazie all'utilizzo della scrittura, rispetto alla poesia visiva di De Seta che richiede invece maggior attenzione dello spettatore. Infatti, le immagini sono talmente belle e poetiche, i gesti talmente veloci e sapienti, che potrebbero far dimenticare allo spettatore superficiale le condizioni di quella vita fatta di solitudine, di lotta e di rispetto per la natura, il sole cocente, la schiena a pezzi, la fame atavica, i calli alle mani:

"il loro tempo è misurato su quelle delle migrazioni stagionali, su quello della ricerca del pascolo, dell'acqua. L'anima di questi uomini è rimasta primitiva. Quello che è giusto per la loro legge, non lo è per quella del mondo moderno. Per loro contano solo i vincoli della famiglia, della comunità. Tutto il resto è incomprensibile, ostile. Anche lo Stato che è presente con i Carabinieri, le carceri".

Si presentano immediatamente i fattori che accomunano le civiltà contadine di Levi e di De Seta: la stessa ostilità per le istituzioni, lo Stato e i suoi metodi repressivi; la diversa concezione del tempo misurato dalla natura; l'esistenza di altre leggi e valori estranei al mondo moderno; l'intimo rapporto con la natura, in lotta e alla mercè di essa; i forti legami di comunità; la chiusura e la perenne immobilità. Condizioni che hanno contribuito a modellare da sempre una civiltà contadina che si è riprodotta similmente nelle diverse longitudini, fino a che la modernità non ha bussato alla porta. Civiltà e culture millenarie oggi andate in gran parte perdute.

Nel descrivere quel mondo contadino tramite la sua vita quotidiana, le vite particolari, gli usi, i paesaggi e la natura, Levi è utile oggi per mantenere fermi alcuni punti di quel mondo che seppur "magico" e affascinante era duro, spietato come la natura, fortemente umano. Ci serve oggi per non dimenticare da dove veniamo e dove vogliamo andare, per non dimenticare che la via della montagna è stata abbandonata per quella della città anche per andare a studiare, che la tecnologia ha risolto più problemi di quanti ne abbia creati, che è pericoloso e oscurantista guardare a modelli vecchi per risolvere problemi attuali e futuri, senza pensare al necessario adattamento, senza proiettarli nella realtà odierna.

Ma al di là del valore storico e letterario, il libro è attualissimo per il metodo empatico che sfruttando la prosa letteraria riesce a farci capire il senso di un'altra civiltà. Il senso che ha avuto un altro mondo.

Cristo si è fermato ad Eboli è un libro che ha superato la prova del tempo per la sua capacità di generare e vedere senso. Per l'abilità di Levi di raccontare una società, che è quella contadina, ma che sarebbe potuta essere qualsiasi altra in cui si entra in silenzio, con gli occhi aperti di meraviglia e con sincera partecipazione. Non un narratore neutrale, ma attore empatico con l'intento, e lo spessore, di raccontare la vita partendo dalle singole vite.

E' uno sporcarsi le mani e molto di più, è un vivere, con-vivere, in una famiglia, un luogo, una città, un paese. Non è il reportage fugace, ma il desiderio di capire e di condividere innanzitutto. Poi eventualmente raccontare. Ma il primo bisogno è quello di cibarsi di altre vite per curiosità intellettuale e non per ambizione letteraria.

Nel lavoro di Levi la ricerca della obiettività deriva proprio dal rapporto empatico che si instaura con i contadini, in grado di do(mi)nare la molteplicità di punti di vista esistenti, raccontare a fondo tutti gli aspetti, viaggiarci dentro, per avere un set di conoscenze tale da far emergere dai particolari il senso, il percorso, i meccanismi, i tracciati delle interazioni del mondo. Non mettere in risalto un singolare punto di vista sul mondo ma capire l'interazione di tutti i punti di vista tra loro.

Come dice Calvino "quest'uomo che si dice sempre che mette se stesso al centro d'ogni narrazione, che fa scaturire sempre attorno alla sua presenza incontri straordinari, è poi lo scrittore più dedito alle cose, al mondo oggettivo, alle persone. Il suo metodo è di descrivere con rispetto e devozione ciò che vede, con uno scrupolo di fedeltà che gli fa moltiplicare particolari e aggettivi. La sua scrittura è un puro strumento di questo suo rapporto amoroso col mondo, di questa fedeltà agli oggetti della sua rappresentazione".

Un tale metodo applicato a mille storie con-vissute, quindi autobiografiche, evidenzia le tipicità che ci accomunano, il comune denominatore di tutte le individualità:

"L'aver scoperto che anch'io avevo dei legami di sangue su questa terra pareva colmasse piacevolmente, ai loro occhi, una lacuna. Il vedermi con una sorella muoveva uno dei loro più profondi sentimenti: quello della consanguineità, che, dove non c'è senso di Stato nè di religione, tiene, con tanta maggiore intensità il posto di quelli. Non è l'istituto familiare, vincolo sociale, giuridico e sentimentale; ma il senso sacro, arcano e magico di una comunanza.[...] Le donne ci salutavano, e ci coprivano di benedizioni: - Benedetto il ventre che vi ha portati! - Benedette le mammelle che vi hanno allattati! -Le vecchie sdentate sulle porte cessavano per un momento di filare la lana, per mormorarci le loro sentenze: -Frate e sore, core e core -. Luisa, che aveva portata con sè la sua naturale atmosfera razionale e cittadina, non cessava di stupirsi di un così strano entusiasmo per il fatto, così semplice, che io avessi una sorella".

Questo modo di raccontare utilizza anche aneddoti per descrivere l'armonia ed il filo delle cose che esprimono, nel loro percorso, il senso ambiguo di un'epoca, la sua complessità, si riesce a raccontare il mondo partendo da una storia in relazione a tante altre, e ricavando l'oggettività del mondo così generata si apprezza l'unicità di ciascuna storia. Ovvero il lettore è posto in una duplice prospettiva: di una vita che si singolarizza, diventa unica, e di una universalità del vissuto che si struttura nelle vite particolari.

Per concludere con le parole di Sartre:

"Ma ogni volta, dietro l'irriducibile singolarità del fatto raccontato, si può intravedere tutto un mondo - il nostro mondo - in quanto si esprime e si realizza nella qualità fuggitiva di una presenza subito dileguata. Darò a tutto questo il nome di senso, in contrapposizione ai significati. Il senso, ovvero l'incarnarsi del tutto in ciascuna parte, ecco ciò che conferisce ai discorsi di Carlo Levi un fascino inimitabile".

giovedì 4 novembre 2010

Matrimonio alla francese 1/2



Arthhur e Gabriela sono giovani e miei coetani, e per questo, come capita in eventi così importanti, sono anche uno specchio. Uno specchio transnazionale dei propri percorsi di vita il cui confronto è inevitabile.

Arthur e Gabriela hanno venticinque anni, sono figli e futuri rappresentanti della classe media francese, entrambi cresciuti a Strasburgo, in Alsazia, entrambi trasferitisi a Parigi per studiare e poi per lavorare: lui giornalista a Europe1, lei insegnante di ruolo alle scuole elementari. Lavoratori, istruiti, 25 anni, appena sposati. Cosa rara oggi in Italia per una coppia giovane e psicologicamente "precaria" mentre in Francia grazie anche alle fortissime politiche familiari, e all'assenza di precarietà contrattuale, è pratica e mentalità diffusa sposarsi, convivere e fare figli con la dovuta spensieratezza dell'entusiamo giovanile. Con leggerezza, senza rumore e stupore altrui, ma con il sentimento della scoperta e il fascino dell'avventura.

Per questo hanno praticato una cerimonia snella e divertente, informale, per nulla commovente, partecipata, aperta anche alla signora matta di passaggio, quasi fosse una messa in scena, e forse in fondo, lo è stata. Un matrimonio celebrato secondo il rito laico francese, tra spirito repubblicano e campagna elettorale, dal vice sindaco del 5° municipio di Parigi. All'ombra del Panthéon, una voce àtona da funzionario alla fine ha formalizzato una cerimonia che aveva lo spirito del cabaret.


Qualcosa di molto diverso rispetto al pesante e lungo cerimoniale italiano, che spesso prevede l'annuncio alle famiglie con un anno di anticipo per aiutarle ad accettare l'idea, una tappa intermedia rappresentata dalla promessa di fidanzamento (nei casi estremi), ed immense energie spese in regali e formalità organizzative, con relativi costi, che scoraggerebbero chiunque a farsi un'idea accattivante della vita di coppia, del viaggio da fare verso il futuro.

Arthur e Gabriela hanno deciso di sposarsi solo due mesi prima, a fine estate come buon proposito dell'anno che verrà e detto fatto: è bastato fare le carte alla Mairie, un giro di e-mail agli amici e avvisare le famiglie della decisione presa.


Uno stile di fare le cose leggero, come ancora più leggera è stata l'attitudine nell'accettarlo da parte di amici e parenti. Reazioni talmente rilassate che mi fanno rivendicare il sogno di una rivoluzione leggera dello spirito, appesantito dai timori di un futuro incerto che nessuno riesce a schiarire e dalla riluttanza a compiere passi verso nuove direzioni segnalate come azzardati e scivolosi sentieri sui quali scivolare. C'è paura di muoversi, paura di cambiare, c'è un conservatorismo che sale fin nelle ossa e rifugge a tempo indeterminato le scelte e i rischi che determineranno il nostro futuro. In Italia Arthur e Gabriella avrebbero dimostrato coraggio.


Realizzatosi il miracolo repubblicano tramite la creazione del neo-nucleo familiare, la giornata è stata divisa in due: il pranzo con parenti e testimoni, e la sera una festa a casa con gli amici, invitati a portare da bere. Un matrimonio senza stress, senza fotografi invasivi e opprimenti, senza giro dei tavoli per scambiare con tutti una parola, alcuna torta da tagliare, ma solo una grande festa da condividere con gli altri. Amici cari, conoscenti e imbucati. In perfetto stile festa di laurea.


Un momento in cui si è esorcizzato collettivamente il passaggio sostanziale verso la maturità coincidente con la fine degli studi, l'inizio del lavoro, l'essere indipendenti. Un momento di trapasso generazionale, in cui per un attimo di estrema lucidità ho rivisto, nel tentativo di esorcizzarli, atteggiamenti e situazioni adolescenziali.


Come guardando una vecchia fotografia in cui riaffiorano alla memoria vecchie sensazioni sopite e mai dimenticate, nel pieno della festa, tra le braccia agitate verso l'alto ho visto lo specchio del tempo che passa, cresce, si evolve. Ad illuminare la stanza, come una luce di Caravaggio, un contrasto di Salgado, una schiarita di Hopper, le canzoni dei miei dodici-tredici anni, dalle Spice Girls agli Aqua!

Compilation-revivals degli anni Novanta che risvegliando la memoria sonora mi hanno fatto pensare al tempo passato e alla testimonianza collettiva che stavamo vivendo.


In effetti, a che serve una festa se non a celebrare un passaggio appena compiuto che va condiviso ed esorcizzato con chi ha vissuto il tuo stesso percorso affinché possa essere da tutti accettato? E in primis dai diretti interessati.

Un matrimonio, un rito, che per concretizzarsi ha bisogno di essere pubblico, sociale, celebrato. E' grazie al ruolo dei testimoni, ovvero degli amici, che si ratifica e convalida tale momento: l'avvenimento diventa reale ed effettivo proprio perché condiviso, mentre se rimanesse solo tra i due sposi ci sarebbe il rischio di conservare un'effimera promessa.

Un passaggio che non lascia indifferenti, ma che tocca in maniera tribale anche i sentimenti, prima non percepiti e ora condivisi, di chi vi ha partecipato. Uno stato d'animo prima non maturato perché immerso in una dimensione e in un flusso percepibili solo da chi ci era già passato.

Una festa che è un'esternazione, un grido di partenza, il fischio di un treno verso una nuova maturità vissuta come il pelo della barba solo adesso curata, un abbraccio più lungo, una sveglia non rinviata. La vita che esplodeva in mille direzioni trova canali in cui liquefarsi scivolando per pendici di storie che noi stessi abbiamo creato. Nulla si distrugge e nulla si crea, tutto si trasforma, e non è da meno la vita che ora prende forma.

Io sono Arthur