mercoledì 24 marzo 2010

Caserta e le sue cave*

Le strade casertane sono sempre terminate con quegli sfondi, scorci di cave simili a gole di montagna, il paesaggio a cui ci si è abituati da troppo tempo. Non deve essere sempre stato così, eppure per chi ha un’età inferiore a quella dell’età estrattiva, per chi è nato e cresciuto qui negli ultimi venticinque anni, quella vista ha eroso lentamente la misura della cose sino a pensare che sia stato sempre così.

I giovani non hanno memoria di paesaggi differenti così come è diventato difficile immaginare futuri differenti. Le memorie fatte di immagini intrasmettibili dei più anziani sono state lentamente scavate, pietra dopo pietra, lasciandoci a venticinque anni soli, senza identità e senza territorio.

Scavo dopo scavo, Caserta e i comuni fiancheggianti i colli tifatini sono diventati l’immagine dello scempio: “Nel 1954 le aree di cava nella catena dei monti tifatini erano di appena ottantasette ettari su un’estensione complessiva di quasi quindicimila. Oggi, nella sola città di Caserta, le aree interessate dalle attività estrattive ammontano a circa mille ettari, trentasei campi di calcio distrutti e sottratti alla collettività, ogni anno”. Le associazioni ambientaliste casertane lo ricordavano già nel 2005, in un documento di proposta per l’istituzione del parco urbano dei “colli tifatini”. Si respirava ottimismo all’indomani di un’indagine quale l’Operazione Olimpo avviata dalla Magistratura nel 2004 e conclusasi in primo grado nel 2008 con “il fatto non sussiste”.

Il gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Antonio Pepe, mandò a casa gli undici imputati del processo nato dall’inchiesta del sostituto procuratore Donato Ceglie che condusse a vari arresti tra i cavaioli e al blocco totale delle cave che circondano l’area tra Caserta e Maddaloni. Distruzione di montagne intere, canoni non versati, bonifiche mancate, falsificazione d’atti, corruzione, danno alla salute, disastro ambientale, ma “il fatto non sussiste”.

“Un’offesa all’intelligenza” fu la reazione a caldo dei pm, Donato Ceglie e Paolo Albano, ora ricorsi in appello. La stessa strategia si ripete oggi come allora: applicare sistematicamente leggi non scritte in esatta contrapposizione a quanto previsto per le bonifiche, la tutela del paesaggio, i rischi idro-geologici, la salute dei cittadini, la salvaguardia del territorio. Un giudice che non vuole ascoltare, un territorio che fa finta di non vedere, ma che consapevolmente subisce: il copione che si sta recitando è quello ben collaudato degli ultimi venti anni che ha fatto letteralmente scomparire le montagne a causa di un’ attività estrattiva perpetrata falsificando macroscopicamente autorizzazioni, ordini di servizio, esplosivi, cartografie, planimetrie al fine di poter cavare illegalmente. Gli attori ieri come oggi sono politici e cavaioli rappresentati oggi dal sindaco di Maddaloni Michele Farina, dalla Provincia e Comune di Caserta, dal Genio Civile, dall’Autorità forestale, dall’Autorità di Bacino regionale della Campania nord-occidentale e dalla Cementir s.r.l del gruppo Caltagirone con i suoi avvocati.

Nel mese di novembre 2007 la Cementir s.r.l ha fatto istanza al Genio Civile di Caserta per l’approvazione di un progetto di “coltivazione e recupero ambientale in ampliamento”, con soluzione di continuità, su un sito ricadente nel Comune di Maddaloni sul versante orientale del Monte S. Michele. Il progetto di “recupero ambientale in ampliamento” si divide in quattro lotti della durata complessiva di venti anni.

Dopo più di un anno di conferenze di servizi gestite dallo stesso Genio Civile di Caserta che fu definito “braccio armato che illegalmente operava nell’interesse dei controllati” dai pm delll’Operazione Olimpo, il 2 Marzo si è tenuta la quindicesima Conferenza di servizi, e tra poco si terrà la prossima, volta ad approvare a tutti i costi la continuazione dell’attività estrattiva a favore del gruppo di Francesco Caltagirone, proprietario anche del Mattino di Caserta. La fantasiosa idea di recupero ambientale, da effettuare tramite ampliamento della cava, si realizzerà nell’apertura di un’ulteriore immensa voragine sul lato orientate della collina di S. Michele esattamente alle spalle dei Ponti della Valle, opera ingegneristica vanvitelliana che rifornisce d’acqua la Reggia di Caserta e patrimonio Unesco dal 1997.

Per prendere coscienza della situazione in cui versa l’ambiente casertano bisogna salire laddove il paesaggio diventa la migliore sintesi visiva del territorio. Dalla cima di S. Michele l’area appare una grande groviera di colline letteralmente sventrate a colpi di dinamite, in profondità, sino a mostrare i nervi tesi di roccia bianca che digrigna i denti. La lenta erosione è divenuta apparente immobilità, lasciando indifferente chi osserva il paesaggio solo da lontano. Bisogna salire, toccare con mano le pareti calcaree, sporcarsi di polvere bianca i pantaloni, arrivare lì in alto dove si possa osservare il tutto per trasformare lo sfondo in cruda realtà. In più di venti anni è avvenuta una guerra illegale condotta contro il territorio comprendente i comuni di S.Prisco, Casagiove, le frazioni di S.Clemente, Tredici, Garzano, Centurano, Parco Cerasola del comune di Caserta e numerosi siti del comune di Maddaloni. L’ impressionante estensione di bianco delle cave ben visibile su Google maps, assume l’estensione del reale quando si osserva da vicino. L’immensa Cava Vittoria, oggetto dell’ampliamento “volto al recupero ambientale”, ti sovrasta senza possibilità di replica.

Decido di salire sulla sommità della Cava lasciandomi alle spalle il cementificio Moccia e la Cava Iuliano, passando per Parco Cerasola noto la Cava di Santa Lucia, ora trasformata in parcheggio per i fedeli della domenica dell’omonima chiesa salvata dalle ruspe. Attraverso la valle di Garzano e le sue cave ad “effetto meteorite”, tra scorci di campagna rigogliosa e colline scorticate, immaginando quello che sarebbe potuto essere e non è stato, sino ad arrivare all’ingresso del santuario di S.Michele. Questo luogo di pellegrinaggio ormai circondato da cave, letteralmente sull’orlo del precipizio, forse rappresenta l’ultimo avamposto di umana civiltà che ancora resiste quassù. Rimarrà forse una croce a memoria della montagna simbolo di una civiltà ormai scavata all’interno.

Perché non importa se qui ci sono un vincolo di dissesto idrogeologico, un vincolo paesistico per un bene Unesco e non saranno rispettati; non importa se c’è il vincolo di rimboschimento e gli alberi saranno abbattuti; non importa se l’area è stata percorsa da incendi e non si potrebbe svolgere alcuna attività per quindici anni; non importa se il costruendo Policlinico non entrerà mai in funzione fintantoché cave e cementifici saranno attivi, se ai cavaioli è stato imposto di delocalizzare e non lo fanno, se l’area è stata definita dal Piano Regionale Attività Estrattive zona altamente critica e si continua a scavare, non importa se tutti sono collusi nel distruggere anche le ultime cose rimaste.


Quel che importa oggi è che la Cava Vittoria ha divorato la montagna lasciando immensi gradoni che lambiscono ormai la strada sull’estremità della montagna. Un cartello ripetuto più volte minaccia di non oltrepassare pena la denuncia dei trasgressori. Quel che importa oggi è che osservando il circostante tutto ti chiede di dire basta a chi vuole continuare come prima, come sempre, da quando sono nato.



*Questo articolo è già apparso sulla rivista napoletana Monitor

martedì 9 marzo 2010

L'arte del viaggiare


Questa è la seconda LUNGA lettera di Michele. Più che una lettera, un piccolo trattato sull'arte del viaggiare, secondo lui assimilabile all'arte di vivere, o meglio sugli artisti della vita che quindi devono essere a loro modo anche dei viaggiatori: un'arte perfettibile da apprendere e migliorare alla stregua di tutte le altre discipline.

Si possono trovare molti spunti interessanti nelle parole seguenti: invito a leggerle e trovare tra queste la frase che più ci rappresenta e che più di altre può essere fonte di stimolo.

Il messaggio fondamentale che si vuole trasmettere è che tutto si può apprendere, anche l'arte di viaggiare tramite l'esperienza che si manifesta nella voglia di essere liberi, o la voglia di essere liberi che si traduce nella necessità di viaggiare, i due aspetti appaiono nella lettera intrecciati ed inestricabili.

Il secondo messaggio è che tale esperienza è un bene comune, va accumulata e condivisa, discussa, confrontata fino a diventare causa di cambiamento per gli altri, oltre che per noi stessi:

"Qualsiasi arte non è mai, per natura, proprietà di un singolo, ma un bene a cui chiunque lo voglia ha possibilità di attingere"

E ciò in parte lo fa anche questo blog. Insomma divenire viaggiatori, e di conseguenza più liberi e coscienti di sè, è un lungo lavoro di ricerca che si attua tramite il viaggio stesso nell'accezione più larga del termine, talvolta con fatica e per necessità allo stesso tempo. Il turista che non "lavora" in questo senso non impara, non si sforza e pertanto non può essere viaggiatore.

E' da tempo che penso di affrontare questo tema e sebbene l'approccio di Michele non sia proprio identico e preciso a quello che avrei elaborato io, o proprio per questo, condivido con voi queste riflessioni sull'arte di essere liberi.


L'arte del viaggiare

di Michele Flori, detto Uujimtal (poi chiederò che significa)


Premessa

Nella prima lettera avevo cercato di richiamare me stesso e tutti i viaggiatori ad un dovere comune. L’ho fatto con parole a volte infelici – e lo avevo messo in conto all’inizio – vaghe e poco chiare, cercando fin troppo di non appesantire l’animo di coloro che avrebbero letto, e per risparmiare spazio l’ho tolto soprattutto ad una esposizione ordinata. Ciò ha causato e può causare una sfilza di malintesi di cui ovviamente sono il solo responsabile. Ma era forse necessario. Se non avessi avuto un’idea di quanto grande e di che genere fosse il senso morale che dei miei compagni sentono su di sé, non avrei saputo nemmeno come farla, un’esposizione ordinata.

Con questa seconda lettera dunque, ringrazio nel modo che preferisco, facendo cioè tesoro di domande e obiezioni, e mi sforzo d’esser chiaro a me stesso e a voi, tralasciando tutto il resto. E questo, lo immaginerete, mi ha procurato una tale fatica, tante volte correggendomi e dandomi torto, che se non me ne volete fare uno voi, vi prego di non saltare alle conclusioni quando siete all’inizio, e non di essere tali e quali all’inizio quando arriverete a conclusione: dopo aver sudato per scrivere queste quattro cose, mi spiacerebbe molto se l’unica cosa che ne raccogliessi fossero commenti frivoli di chi non si è dato la pena di prestare un po’ di attenzione.


L'arte del viaggiare

1.

Alcuni mi hanno scritto immaginando che con la parola branco intendessi una sorta di “partito”, cioè un gruppo in cui per esser dentro, conta non esser fuori, dove se ne è parte quando ci si è assunti la fatica debilitante di aderire. Un “partito”… Ma che fa, un “partito”? Allora ho chiuso gli occhi, e mi sono immaginato un “partito”. Uno a caso fra i mille. E la prima cosa che ho visto erano diserzioni, veleni, pigrizia, ingarbugliamenti, ambizioni personali e una marea di pretesti e fandonie, necessarie a chiunque è di “parte”. L’ho visto andare a caccia di militanti come un poveraccio con l’acqua alla gola agita le braccia per tenersi a galla, e pagare il prezzo di così spudorati compromessi, che nessuno capisce più chi sia. E tutto questo perché ci si voleva sbrigare a mettere in piedi qualcosa di roboante e a darsi i galloni, credendo che basti il numero o abbaiare contro questo o quello, senza darsi pena di formar se stessi. E infatti, che ci vuole ad esser fra gli eletti? Compilare l’iscrizione, legger qualche libro, magari andare ad un convegno di tanto in tanto, farmi tramortire da e-mail al grido “Ora basta!” e aspettar l’ambita promozione a far lo stesso con nuovi sventurati, un giorno quattro gatti, un altro tre, perché qualcuno s’è scornato, e un altro giorno due, perché c’è stata una scissione. E alla fine soltanto uno, e quello non sarei certo io. Per Ercole, meglio sarebbe cagarmi nelle brache, direbbe Rabelais! Perché dovremmo volere una fine simile?

Allora m’è venuto in mente quel che diceva Longanesi: non è che manca la libertà, è che mancano uomini liberi. Ma formare uomini liberi non è un “partito”, è un’arte: paideia la chiamavano i Greci, e io ho detto, e dico, che è la stessa arte dei viaggiatori, e che noi possiamo coltivare, ovviamente e prima di tutto su noi stessi.

Allora mi son chiesto se quella dei lupi non debba piuttosto somigliare a un’arte, che risponde ad un metodo, e non a qualche forma di controllo politico. Acquisire un metodo è qualcosa di molto più efficace, importante e duraturo che far militanza, ma richiede più tempo e pazienza. Un’arte è sempre feconda, e non si spazza via con un colpo di vento, non si preoccupa di quanti la coltivano, non ha da cercar compromessi con nessuno, non ha capi, ma solo maestri, e maestri solo per merito, dopo aver acquisito, negli anni, la maturità e le conoscenze necessarie, alla riprova di ciascuno. È libera e gode di se stessa, del frutto e del perfezionamento del suo lavoro, non dipende da nessun singolo ed è a disposizione di tutti. Non pretende che senza di essa gli uomini non possano nulla, come un pugile non ha difficoltà a riconoscere che possa esserci chi sa dar di pugni senza aver mai preso una lezione. Eppure praticando il pugilato si migliora a dar di pugni. Prendete il canto o la ceramica, l’arte dei fiori o la scherma, e vedrete facilmente che il mestiere del lupo è di gran lunga più simile a queste che ad una ideologia, base di ogni tipo di schema “amico-nemico”, dove ci si perfeziona unicamente nel masticare amaro.


2.

Ma come si getta le basi, o si progredisce, nel formarci uomini liberi? Qualcuno potrebbe sostenere che per rispondere a questa domanda, saremmo forzati a rispondere prima ad un’altra, e cioè: che cos’è la libertà? Ma io non sono d’accordo. Un pittore non comincia a dipingere dopo che si è dato una risposta alla domanda su che cosa sia la pittura: non avrebbe molto senso. Se lo facesse, lo vedrei già perdere le notti a sviscerare la questione, e senza nemmeno una natura morta sul tavolo. Così, se noi decidessimo che non possiamo educarci a essere uomini liberi, prima di averne dato una definizione teoretica definitiva, possiamo star freschi, e prepararci a morir cavillando e a cavillar morendo. E visto che io, naturalmente, non farei eccezione, invece d’infilarmi in questo pantano, provo adesso a immaginare le situazioni concrete in cui sicuramente non c’è un uomo libero.

Un uomo che fosse impreparato a usar la ragione e ignorante di tutto quello che gli uomini hanno fatto per illuminare le menti, che fosse impossibilitato, per mancanza di profondità e cultura, a vedere le cause, a notare le contraddizioni, un uomo insomma che non avesse mai educato il suo pensiero, non sarebbe forse in balia di catechismi falsi e odiosi, e degli individui che per interesse o rancore ne fanno uso? Non credo proprio che l’ignoranza sia una virtù dell’uomo libero.

Ma seppure è coltissimo e imbattibile nei sillogismi, se i libri che ha letto formano montagne, a che gli servirà se è un animo pavido e insicuro? Ci sono molti che tuonano seduti in poltrona e dietro a uno schermo, ma basterà mostrar loro i pugni, e fuggiranno a nascondersi sotto un tavolo. Moltissimi, perentori nei loro ragionamenti, si dimostrano vili e titubanti nella vita reale. Anzi quanto più appariranno minacciosi e aggressivi dietro a un cancello, tanto più c’è da scommettere che a cancello aperto non faranno un bel niente, secondo il famoso detto popolare che “can che abbaia non morde”. Altri, per timore, semplicemente si acquattano e si arrendono ad ogni cosa. Ritenere un uomo impaurito, un uomo libero, richiede una singolare immaginazione.

Se un uomo poi è comandato dai suoi stessi capricci, perché qualcuno glieli ha sempre assecondati o sempre negati, se un giorno vuol essere questo e un altro quello, e subito si annoia di tutto, se si fa attrarre ora da un ninnolo, ora da una novità, se insomma si fa dominare dall’impulso e non è padrone di sé, chiamare costui libero farebbe addirittura sganasciare dalle risate. Nella società di massa fatta di mille luci e mille novità buone un giorno, e nessuna disciplina etica, un animo impulsivo e disordinato è addirittura aizzato dagli squali che ci guadagnano sopra, mascherato da libertà, con una bella faccia tosta, loro e di chi ci crede.

E se un uomo ha fame, se dipende da un padrone per avere di che vivere, se è costretto a adulare il suo superiore per sperarne un aumento, un posto, se è obbligato ad umiliarsi, a servire, ad applaudire, perché la rata dell’affitto è troppo cara, potrà mai essere libero un uomo in queste condizioni? Nemmeno il più convinto lustrascarpe dei potenti oserebbe ammetterlo.

E infine, se un uomo è chiuso nel suo ambiente e ne è talmente assuefatto che soltanto uscirne di un poco lo confonde, se fa perché così fan tutti e non mette alla prova la sua esperienza, non è forse vero che si è già bell’e costruito un muro intorno a sé convinto che il mondo finisce lì, e basterà fare un buco in questo muro per mandarlo gambe all’aria?

Un uomo libero, insomma, non deve piegarsi né all’ignoranza, né alla paura, né al capriccio, né al bisogno, né infine al pregiudizio e al ghetto in cui la vita, in assenza di reazione, può relegare gli uomini.

Se uno mi dicesse, a questo punto, pressappoco così: “Tu disegni un uomo impossibile, perché in lui non c’è ignoranza, paura, capriccio, bisogno o pregiudizio. Tu disegni un sogno e quindi sei un illuso”, io gli risponderei che allora non esistono sciatori, perché non ve n’è uno, nemmeno fra gli olimpionici, a cui non capiti di pigliar male una curva, o di sbagliar l’angolo. Non mi sia dia il cruccio con queste obiezioni da prete, con cui si equipara ciò che è perfetto con ciò che è perfettibile, e l’appiccicare una dote innata con ciò che invece è frutto di lunga fatica.

Ora, è sicuro che per rimanere nell’ignoranza basta poco sforzo, mentre ne occorre uno non piccolo per formarsi una ragione critica e una profonda conoscenza dei nostri doveri morali. Ma nessuno dirà che la cultura è inutile, che riflettere non serve a niente e che uscire dall’ignoranza è impossibile, senza per questo considerarsi degli oracoli.

E anche la forza di volontà, che domina la paura, può essere imparata. Un uomo che ad esempio sappia difendersi, avrà meno paura di un uomo completamente inerme. Chiunque, cominciando qualcosa con cui non ha confidenza, ha paura di commettere errori. Piano piano, però, provando e riprovando, senza arrendersi, si acquisisce sempre più sicurezza nei propri mezzi, e laddove era proprio la paura a causare gli errori, adesso gli errori se ne vanno via con la paura. Anche nel fortificare l’animo per affrontare un ostacolo, occorre un percorso più o meno lungo, ed è senza scorciatoie. Ma chi dice che è impossibile, non ha mai conseguito nulla in vita sua.

E anche disciplinare se stessi è duro, ma ottenibile. Vi racconto un fatto personale. Pratico aikido in Giappone, e dal prossimo anno entrerò in una scuola dove per due anni, per nove mesi all’anno, dormirò, mangerò e mi allenerò tutti i giorni per tutto il giorno, non solo in aikido, ma anche in altre discipline come la calligrafia e la cerimonia del tè, dove più dell’abilità manuale conta apprendere una assoluta padronanza di sé. Un animo agitato non può disegnare buoni ideogrammi, la sua mano lo tradisce subito. Inutile dire che i buoni ideogrammi si sapranno disegnare alla fine, non certo all’inizio, e durante non si fa altro che sudare. Quando cominciai a studiare aikido, in Italia, ridevo del fatto che ci si dovesse inchinare ai compagni, e sedevo come più mi pareva. Guardavo con impazienza alla lentezza dei movimenti, e reputavo assurda quell’idea d’esser forti senza essere aggressivi. Ma, nonostante i miei dubbi, ho proseguito un’arte che sapevo essere seria e nobile. Lentamente, ho preso coscienza che inchinarsi ai compagni non è un’assurdità, ma una forma di rispetto che scandisce con precisione l’inizio e la fine di quello che mi accingo a fare, e non rido più di quei movimenti lenti e fatti con dolcezza, perché ne ho compreso la forza. Sebbene ancor lontanissimo dalla disciplina che raggiunge un maestro, sono tuttavia più disciplinato. E questo mi basta per ritenere la disciplina di sé un’opera lunga e anzi infinita, ma possibilissima.

E come potrei non credere alla dignità dell’uomo di vivere libero dal ricatto di un padrone? Ma certo leccar piedi ai potenti – e la vita quotidiana ci offre con abbondanza questo bello spettacolo – dà speranze di guadagni più immediati e consistenti.

Né, infine, mi si convincerà facilmente che qualcuno mi abbia condannato a rimanere chiuso nel guscio dove la sorte mi ha posto, sebbene abituarsi all’abitudine sia incomparabilmente più comodo e rassicurante. E tuttavia non basta cambiar prospettiva una volta per pensare che il lavoro è bell’e fatto, perché altrimenti non farei che preparare un nuovo guscio con le mie stesse mani. Aprire i propri limiti è una fatica che comporta molto tempo e molte esperienze diverse.

In conclusione, non si finisce mai d’imparare, ma questo significa proprio che si può imparare.

E considerate anche questo. Quelle cinque schiavitù di cui ho parlato – e le altre, se ve ne sono di non riconducibili a queste – coinvolgono ognuna una precisa sfera d’azione dell’uomo, e si potrebbe ritenere che siano l’una indipendente dall’altra. È infatti più che ragionevole sostenere che un individuo, pur non dotato di coraggio, pur incapace di disciplina, pur prezzolato al servizio di qualche signorotto, possa tuttavia saper maneggiare con perizia i principi morali, ed elaborare pensieri veri e profondi. Può essere, ma osservate quanti pericoli vi siano. Se è un animo pavido, può anche darsi che i suoi pensieri ne siano influenzati in modo quasi invisibile. Un animo gretto, o ambizioso, o ipocrita, come potrebbe non correre il rischio di avere un pensiero morale che gli rassomigli, o addirittura di usare il pensiero per giustificar se stesso? “Se non avessi avuto terrore del giudizio universale” diceva Sant’Agostino “non sarei mai divenuto cristiano”. Un ottimo esempio, mi pare. E quanti sono coloro che usano un buon intelletto per insinuare, confondere le carte, assolvere e assolversi, semplicemente perché sono animi liberi nel conoscere, ma schiavi in tutto il resto? E la stessa cosa vale anche negli altri campi, come può facilmente vedere ciascuno ripensando ai casi che ha davanti agli occhi tutti i giorni. Se un uomo si trova a dover affrontare il bisogno, più saranno i desideri che deve soddisfare più questo bisogno lo stritolerà, più avrà paura più il bisogno lo strozzerà, e più non avrà riflettuto né dato spazio a giuste considerazioni, più l’idea di uscire dal bisogno, a cui solo pensa, lo schiaccerà.

E facilmente vediamo che un uomo si rintana nei suoi limiti tanto più grande è l’ignoranza, la paura e la dipendenza dalle cose esterne. Chi poi non teme niente e nessuno, lasciato in preda all’insensatezza diverrà facilmente un violento, come quei soldati che pur addestrati alla forza di volontà e al coraggio, bruciano villaggi e si fanno comandare come macchine da istigatori che sanno mettere due discorsi in fila.

Così che si dovrebbe assumere, almeno per cautela, che ogni sfera d’azione in cui l’uomo può o meno esercitare la sua libertà, sia legata l’una all’altra in maniera non chiara, ma imprescindibile. La stessa esperienza ci fa vedere tranquillamente che d’altronde, come un difetto nell’una può ripercuotersi in modo negativo sull’altra, così una virtù nell’una può contribuire a migliorare l’altra.


3.

Se quella dei lupi è un’arte, che si raffina costantemente, allora ha un metodo, ed esso stesso, pur poggiando su pochi e utili principi, non si preclude mai nulla per partito preso; a differenza della religione, non gli interessa aver tutto in tasca, come per quei bambini che vogliono avere tutte le caramelle a portata di mano. Ma se ciò di cui parla questo metodo, è educarsi a essere uomini liberi, e quindi un bene comune, non ha la pretesa di trovare ciò che gli uomini hanno sempre cercato? Come può avere quest’arte la presunzione di detenere la ricetta non di un sapere particolare ma addirittura della libertà in generale? In effetti, una presunzione del genere sarebbe assurda, e infatti è il pane di un’ideologia. Sebbene queste obiezioni siano comuni e inevitabili, non derivano però che da un fraintendimento direi quasi completo. Devo cercare di muovermi adagio, a costo di sembrare indigeribile; è un passaggio non facile, lo ammetto, e meno facile ancora è esporlo con chiarezza, ma è qui che richiamo tutta la vostra attenzione, e vi esorto ad usare la mia stessa cautela e la vostra riflessione.

In primo luogo bisognerebbe tenere ben in mente che un’arte non si propone mai il dominio del suo oggetto, ma studia l’uso migliore che l’uomo può farne: l’arte dei fiori non si propone di avere il dominio sui fiori, ma studia i modi migliori per arrangiarli e renderli più belli all’occhio umano; e lo specialista della scherma non pensa di aver diritto su tutte le lame che gli passano davanti, ma studia semplicemente le tecniche migliori per tirar di spada; allo stesso modo l’arte di vivere liberi non ritiene la libertà cosa sua, ma studia i migliori modi che ha l’uomo per essere libero. L’arte non è mai totalitaria, l’idea di dominio le è estranea, e in sé è pacifica e feconda. Nell’arte si ha sempre da imparare, proprio perché non si presuppone l’esclusività sulla cosa, ma l’uso migliore, che è sempre perfettibile. Se si ritiene in possesso di qualcosa, è delle tecniche conseguite fino a quel punto, ma non solo non esclude di migliorarle: coltiva se stessa appositamente per questo scopo.

In secondo luogo, non si deve credere che l’arte di vivere liberi, perché è vista come arte dell’uomo in generale, sia più o meno arte di quelle particolari. Il cosmologo non è uno scienziato superiore all’esperto di astrochimica, nonostante la cosmologia studi l’universo e l’astrochimica un suo aspetto. La biologia non è più scienza dell’ittiologia, sebbene più generale; così come la pittura non è più o meno arte di quella che si occupa di ricavare i colori, sebbene l’una faccia uso dell’altra, e non viceversa.

Se vi furono differenze di giudizio fra le arti, queste semmai venivano dal ruolo politico e sociale di chi le coltivava, e questo può cambiare a seconda dei tempi. Non è difficile vederlo. Nell’epoca feudale l’arte dello spadaccino e della caccia erano considerate proprie di una educazione nobile, e quindi erano ritenute superiori a quelle del fabbro che forgiava le spade o dell’artigiano che fabbricava gli archi: ma non è stato sempre così. La retorica era considerata un’arte indispensabile da coltivare per un uomo libero, ne vennero stilati trattati famosissimi e i suoi migliori esponenti erano considerati degli eroi: ma oggi un esperto di comunicazione non potrebbe sperare altrettanta fortuna. Un tempo il pittore era considerato un normale artigiano, sebbene ci fossero pittori famosissimi: poi un periodo d’invasamento li fece dei “geni creatori” paragonati a dèi. Alcune arti sono sempre state considerate importanti per l’educazione politica e il mantenimento dell’ordine statale, specie quelle legate alla scrittura, capaci di riprodurre e tramandare parole, leggi e costumi, così come potenzialmente capaci nel sovvertirli: non stupisce che gli scrittori siano stati una razza particolarmente perseguitata. La poesia è sicuramente la più antica e celebrata fra queste. Eppure la poesia non è più arte del soffiare il vetro.

L’arte di vivere da uomini liberi, quindi, non dovrebbe essere considerata né più né meno arte di qualsiasi altra, né può credersi definitiva, così come non lo fa nessun altra. Nell’epoca classica era appresa, coltivata e insegnata al par di tutte le altre discipline, e nella cultura giapponese – o meglio, in quei brandelli che ne rimangono – la saggezza non è una dichiarazione di superiorità o un diritto sugli altri uomini (sempre escludendo quei fanatici religiosi e settari che son comuni all’umanità come le emorroidi) ma il miglior frutto di molti anni di applicazione ed esperienza: saggio non è sicuramente uno sputasentenze che si spaccia da puro, ma può esserlo un maestro di spada, un maestro di ceramica, uno di calligrafia e perfino un maestro del ciado, la via del preparare il tè, e vedrete che nessuno di essi si paragonerà ad un superuomo.


Perché mai allora, noi siamo così impauriti? Perché appena sentiamo qualcuno parlare di forza morale, uomini liberi o di diventar maestri, ci chiudiamo a riccio, approviamo ma balbettanti, ma se quello insiste gli rinfacciamo dogmatismo, superomismo, intolleranza?

Essere sicuri di sé non ha certo nulla a che vedere con l’essere dogmatici. Forse quando camminate per strada, pensate che farlo spediti sia un’arrogante presunzione e vi mettete a zoppicare? E se vedete un tizio che sta per sbattere contro un albero, lo lascerete schiantarsi perché tutto è relativo? Per un corrotto chiederete la galera, o direte che in fin dei conti non possiamo distinguere il bene dal male? Il dogmatismo è certo il difetto degli stupidi, ma l’insicurezza è il difetto dei disgraziati.

Io non so se questa insicurezza nei giudizi, che fa sempre il paio col criticare tutto, di cui molti si lamentano e ci restano aggrappati, dipenda dalle legnate che l’intolleranza e il fanatismo religioso hanno dato alla nostra storia, oppure da una delle tipiche cattive abitudini delle società ricche, oppure da entrambi. Ma forse sarebbe bene superarla.

Infine, ed eccoci al succo, proprio perché formare un uomo libero significa formare un uomo in senso generale, proprio perché invece di una singola capacità quello che si cerca è un modo di essere che stia alla base delle singole capacità, l’arte che ne è preposta non si pone in contrasto con le altre arti, ma semmai le coltiva, e il suo compito è creare una relazione fra tutte quelle arti che contribuiscono, ognuna nel suo campo, a formare un uomo libero. Questa descrizione, che a me che la rileggo sembra un po’ tignoccolosa, non dice in realtà niente di difficile, se pensiamo all’esempio già citato della paideia greca. Anche la paideia greca era considerata un’arte che aveva come scopo quello di formare, secondo un ideale greco, l’uomo in generale, e questo voleva dire occuparsi di armonizzare i vari aspetti che lo compongono, per farne non un individuo perfetto, ma un individuo più equilibrato e solido. Per far questo si rivolgeva alle singole arti e discipline le quali, migliorando l’individuo in una sua parte, miglioravano l’individuo in generale: la filosofia, l’atletica, la grammatica, la lotta, la musica, e tantissime altre pratiche che l’arte dell’allenamento dava all’intelligenza umana. Si pensi poi all’educazione che in ogni tempo, e con metodi molto diversi, viene doverosamente impartita al fanciullo, per prepararlo a diventare uomo: anche quella odierna, pur tragicamente vecchia e visti i risultati pressoché inutile, si compone di varie discipline che mette insieme cercando di raggiungere un’armonia che ritiene più consona a crescere un animo maturo.

Mettere in pratica l’arte dei lupi non impone dunque di abbandonare le altre arti, ma suggerisce piuttosto di esplorarle e coltivarle, perché l’uomo libero si compone di una relazione ben riuscita di attitudini particolari, e queste attitudini particolari sono l’oggetto di altre arti. Per questo l’uomo libero è un viaggiatore, e il viaggiatore si forma viaggiando ad esser uomo libero. Il mestiere del viaggiatore non è sollazzarsi nel vedere cose nuove, dissi una volta, seppure questo sia uno dei piaceri che comporta, ma consiste nello stabilire una relazione fra cose differenti, che è tanto più buona e fruttuosa quanto più chi si mette in viaggio ascolta, impara e infine diviene una cosa sola con quei diversi saperi e gli uomini diversi che ne sono figli. Così, se qualcuno volesse conoscere e far tesoro di ciò che di più bello può insegnare l’arte di vivere propria dei pastori mongoli, o di quelli della Val padana, o di tutti gli altri, dovrà mettersi alla loro scuola, vivere e guardare come loro, e tanto più imparerà quanto più si sarà messo a scuola. E come il viaggiatore cerca l’esperienza, allo stesso modo nulla vieta che chi possieda un’esperienza si faccia viaggiatore, anche se questa non ha diretta attinenza con la formazione dell’uomo libero: il microbiologo, che studia la vita delle cellule e non un modo d’esser dell’uomo, può mettere la sua scienza al fine di migliorare il futuro oppure i conti di un’azienda, ma tanto più, e con maggior convinzione, sceglierà di fare la prima cosa quanto più sarà uomo libero.


4.

Tutti quindi possono trar frutto da un’arte che ricerca i modi migliori per coltivare la propria libertà, ma questo non vuol dir certo che quest’arte in sé si forma a casaccio, né che mastica un po’ di tutto. Ci saranno discipline che essa riterrà non superiori ad altre, opinione che si è visto abbastanza sciocca, bensì più utili al suo oggetto specifico.

Amo l’arte culinaria, e la chiamo arte come tutte le altre, ma forse l’arte del ragionare, o dialettica, sarà più consona per educare alla ragione critica e al riconoscimento dei doveri etici. Ogni scopo prevede dei mezzi adatti, e questo mi sembra tanto ovvio che si spiega da sé. Ma ci ricorda anche una cosa importantissima: che ogni sapere, e quindi ogni arte, e quindi anche la nostra, richiede un metodo.

Se infatti mancasse un metodo, vedrei già bussare alla porta uno stormo di rattristati, esauriti, cercacristi, misteriosofi e pazzi di ogni risma che rivendicherebbero, a ragione, di entrare. Non crediate che saremmo i soli a ricevere tanta cortesia: soggetti simili cercano d’infilarsi sempre dappertutto, come dei morti di fame tirano qualsiasi mantello gli capiti a tiro. Quante ne ha dovute vedere la scienza! E anche nelle povere arti marziali, quante teste matte ci è toccato aver compagni! Ma tanto la scienza quanto le arti marziali hanno pensato bene di chiudere a tripla mandata le loro porte, e questo sistema di sicurezza si chiama metodo. Per quanto possano agitarsi, farneticare o attribuirsi chissà cosa, quei poveretti non riescono a padroneggiare uno strumento meraviglioso per usare il quale occorre invece calma, buon senso e modestia.

Figurarsi che razza di chiavistello dovremmo procurarci per una disciplina che ha per oggetto l’uomo libero! Eppure il metodo non necessita di molte parole, quello dell’intera scienza potrebbe essere contenuto in un libricino di poche pagine: ma devono essere chiare e tonde, se reggono una conoscenza così mastodontica.

Nel nostro caso le cose non stanno in modo diverso: deve darsi cioè un metodo che indichi come impiegare col maggior frutto possibile la ricerca dei mezzi con cui l’uomo può formarsi, coltivare, difendere una forza morale che coincide o almeno è inscindibile dalla libertà. Pochi principi dettati solo dal buon senso, che rispondono all’utilità, chiari e semplici, ma per ordinare i quali occorre esser attenti legislatori, perché una pietra messa male avrebbe conseguenze nefaste su qualsiasi impresa successiva. E se potessi spendere due parole in confidenza sull’argomento, senza pretendere di esser più senatore di voi, direi che un’indicazione preziosa ce la potrebbero fornire proprio i pazzi di cui ho parlato prima. C’è davvero di che imparare da tutti!

Perché, se non erro, la scienza e altre discipline, assediate ogni giorno da questi signori, hanno risposto, e rispondono, con l’idea o la prassi del dar sempre conto di se stessi e di giudicare il proprio lavoro in base alla precisione e concretezza delle sue conseguenze.

Questo non significa, ovviamente, che un razionalista non abbia opinioni personali né che non possa ritrovarsi con un pugno di mosche, ma significa che non si va avanti senza dar ragione di quello che si fa, né senza procurare alcun risultato verificabile. Non ci vuole un occhio felino per vedere come la sapienza occulta si basa su null’altro che illazioni indimostrabili e risultati vani, e coloro che la praticano più che sapienti sono dei bari.



5.

Adesso io vi vedo con la canna della pistola in bocca, afflitti dal tormento di dover leggere tutta questa roba: immaginate me che la scrivo, e per di più il tempo m’incalza come un cane rabbioso.

Ma come potrei aver concluso, se a questo punto m’immagino un maligno che mi fa: “Che bisogno c’è degli altri, quando si può far da sé, e come più ci pare e piace? Ognuno la rigiri come meglio la crede, e buonanotte!” È un po’ la nobile saggezza dei nostri tempi. Ma se anche costui avesse diritto a un tale cinismo, io dico che lo pagherebbe vendendo più che altro un bel po’ di cervello.

Diamo per buono che un uomo diventa moralmente forte quanto più si costruisce, esercitando la ragione critica, un codice morale solido e motivato. Per procurarselo, cosa fa prima di tutto se non rivolgersi ai libri che ci hanno tramandato uomini di comprovata saggezza? Solo che un codice morale non è un’opera che è già lì sul tavolo, ma una raccolta ragionata di ottimi consigli su molte questioni, dispersa in una miriade di opere. Nessuno, da solo, potrebbe leggerle tutte, e sarebbe un peccato che ci si perdesse dei buoni esercizi solo perché si è voluto far tutto da sé. Esercizi? Sì perché quello che va cercando un uomo libero è quello che lo fortifica praticandolo, anche laddove usa l’intelletto. Provo a fare degli esempi con quel poco che io posso offrire.

Se io mi leggessi uno di quei bacucchi tedeschi che dice “l’essere è la possibilità dell’esserci”, sinceramente, anche fosse un’affermazione molto profonda, io che studio da uomo libero, che me ne faccio? Se studierò filosofia, forse la sottolineerò, ma la filosofia e l’arte dei lupi, per quanti fili li possano collegare, son due cose diverse. Se però, da un altro filosofo, leggo: “Non inorgoglirti per un merito che non ti appartiene. Se fosse il cavallo a vantarsi: “sono bello”, si potrebbe anche accettarlo; ma quando tu orgogliosamente dici “ho un bel cavallo”, sappi che ti stai vantando di un pregio del cavallo…ecc.”, io questo consiglio me lo sottolineo, perché potrei non solo dargli un assenso razionale, ma anche metterlo in pratica. E la metto in pratica se lo esercito continuamente, se lo tengo sempre pronto. Ma devo ricordarmi di non dimenticarlo, quindi lo rileggo spesso: questo diventa una sorta di esercizio morale.

Ora, penso che di buoni consigli come questo ne potrei trovare ovunque, anche soltanto dagli uomini del passato: alcuni che mi spiegano perché dovrei rifiutare denaro da un corruttore, altri che mi aiutano a capire quando moralmente ho a che fare con una corruzione e quando invece è un semplice regalo, e mille altri casi che non mi dispiacerebbe affatto collezionare, discutere, applicare, digerire e insegnare. Ma come faccio da solo? Come posso anche solo aver vita sufficiente per ricercare i mille consigli di mille popoli, culture, scuole?

Ma si dirà: “Questo vuol dire che dovremmo imporci dei pensieri e imporli agli altri, e limitare la mia libertà?” Cosa intendete per pensieri? Se fosse che cercassimo affermazioni teoriche, se fosse che il metodo comune servisse per imporci la credenza di qualcosa, sarei il primo a fuggire lontano cento miglia. Ma noi non stiamo cercando dei principi teoretici, né una verità astratta, ma un codice morale di cui possiamo sperimentare tutti i giorni l’efficacia. E la stessa concretezza, la sola cosa che ci fa cambiare e fa cambiare le cose, la usiamo anche altrove.

Chi conosce tutti i mezzi usati dagli uomini per fortificare il corpo e l’animo? Gli Spartani educavano i giovani a portare un solo mantello tutto l’anno, affinché imparassero a tenere testa al freddo, al caldo e al lusso. Non è certo una cosa più bizzarra che regalare al proprio figlio sedici maglioni all’anno, ma il punto è: gli Spartani insegnavano questo e altro; e tutti gli altri? Solo con le mie gambe darei ogni volta la medesima risposta: boh!

Curare la forza di volontà è un’opera che comprende molti aspetti diversi e sempre innovabili: la resistenza, la preparazione mentale, il tipo di ostacolo. Le soluzioni le danno molte discipline, esempi e esercizi differenti. Questo significa che dovrei farli tutti? No, significa che posso avere, grazie al lavoro unito di tanti, una scelta ragionata da cui liberamente traggo quel che più fa per me.

E anche lo studio della disciplina come qualità dell’esser padroni di sé, viene da molte arti e spunti differenti, e consiglia un lavoro comune. La base di ogni buona disciplina è, notoriamente, il rapporto allievo-maestro, completamente differente da quello subordinato-capo in cui si risolve una società imbarbarita e serva. Compito del maestro non è sottomettere un allievo o pretendere che questi lo veneri, ma consiste unicamente nel rendere l’allievo pari e superiore a se stesso. Ecco perché un qualsiasi maestro che parli di sé, che sbandieri le sue qualità, che si arroghi il diritto di poter fare quello che un qualunque suo allievo non potrebbe mai, è un falso maestro e un capo mascherato. Frenare la propria impazienza, applicarsi all’inizio per quello che si capirà poi, percorrere insomma la strada senza farsi deviare dagli impulsi più comuni, questa è la virtù di un buon allievo. E il viaggiatore è un buon allievo, che un giorno sarà maestro – vale a dire un allievo più esperto, ricordando come non si finisca mai di apprendere.

Ora, dato che per dare un senso al rapporto allievo-maestro, c’è bisogno che l’allievo diventi maestro, non c’è cosa più certa che l’uomo si educa alla disciplina di sé diventando competente in arti utili all’arte dell’uomo libero. E dentro l’arte di cui s’impadronisce fa crescere quello spirito dell’uomo libero, il viaggiatore-maestro comincia a tracciare quel suo sentiero che assieme agli altri unisce tutte le buone arti e i buoni maestri per riprendersi l’educazione della civitas, lasciata com’è ora a miti selvaggi e violenti.

Ma tutto questo come potrebbe esistere, se non vi è quella dignità dell’uomo che si libera dal profitto di quegli stessi che la calpestano? Il lavoro è la chiave di sopravvivenza dell’uomo libero. Quando mi capitò di sfacchinare in un kibbutz, in Israele, rimasi ammirato di come il lavoro collettivo aveva costruito e teneva in piedi la collettività, e nonostante difetti, problemi, intoppi – che fanno parte della vita – e le peculiarità di un paese in guerra com’è Israele, non dimentico le decine di capi di bestiame, il latte esportato, la singolare circolazione del denaro, i turni alle mense che non privilegiavano nessuno, i vecchi che continuavano a sentirsi utili in mille modi, e quei pasti in comune in cui nel profondo stava un’idea: nessuno verrà lasciato solo. E quanti sono i villaggi ecologici, le fattorie, gli esperimenti in città, e dispersi in un mondo di cui nessuno di noi saprebbe cavar fuori una mappa, quanti sono i luoghi dove l’intelligenza e il senso di responsabilità hanno dato forma concreta, da cui un viaggiatore, passando, imparerà, studierà, annoterà, vaglierà, esaminerà, considererà, proporrà, approverà, costruirà? E quante altre “comuni” o stili di vita, meriterebbero di non essere dimenticate? È un mondo sterminato che i lupi attraverseranno in mille direzioni diverse, solitari se vorranno, col compito di riportare agli altri quello che hanno visto e d’infondergli il coraggio e la passione di far cose ancora migliori, mettendo ognuno le sue capacità e le sue braccia.

E infine, poiché un viaggiatore si forma viaggiando, poiché è lungo la sua corsa che si trasforma in lupo, perfino in questa corsa libera rimane senza metodo, e senza una tradizione comune. Se metodo comune non significa costrizione, ma maggior frutto, allora il lupo conosce i mondi dentro i quali inoltrarsi ignaro. Proprio per questo un lupo viaggia dappertutto e dove vuole. Li attraversa tutti, perché tutti lo fanno forte: il mondo della natura, dove occorre silenzio e forza d’animo, improvvisazione e cautela, il mondo delle scuole umane, ma anche il mondo della civilizzazione e dei piaceri, e quello sporco dei vizi umani. Perché un lupo non è un moralista, che si ritrae scandalizzato dal Decamerone della vita, non è un’asceta e non ha da divenir santo, ma deve saper attraversare tutto, perché altrimenti la vita lo catturerà presto con una tagliola piazzata vicino alle sue zampe. Si segna le cicatrici, e quando queste sono sufficientemente numerose e varie, ed è un metodo comune a stabilirlo, acquisisce una maestria nell’arte di viaggiare che trasmette anche agli altri, perché ci siano più uomini e meno marionette.

Un’opera comune è quindi di vantaggio anzitutto per l’individuo. Senza che s’imponga alcunché: una squadra di archeologi non si infastidisce se un tizio va in giro a scavare con una pala, poi però non si lamenti dei risultati.

Ma, anche se uno potesse far tutto da sé, c’è un altro motivo, il più importante, per il quale dovremmo condividere con gli altri una via di questo valore.

Qualsiasi arte non è mai, per natura, proprietà di un singolo, ma un bene a cui chiunque lo voglia ha possibilità di attingere. Nell’arte del formarsi a uomini liberi, che non fa eccezione, chiunque può trovare, applicare, e accrescere un patrimonio comune. Ed essendo che formarsi a uomini liberi è dir lo stesso che diventar forti sicuramente contro l’ignoranza, la paura, l’impulso irragionevole, il bisogno e il pregiudizio, allo stesso modo significa diventar forti davanti a quegli uomini che, dominati da tali schiavitù, le usano per dominare gli altri uomini, come c’insegnano a sufficienza i soprusi del passato e quelli del presente. È quindi chiaro come la luce del sole che un uomo libero vive per uno Stato libero, e che un uomo è tanto più libero quanto più lo Stato è libero: e tanto più uno Stato è libero quanto più è il diritto, e non l’arbitrio, a guidare gli uomini.

L’educazione ad un animo libero è per natura, che lo voglia o meno, un’opera civile e politica. Con la stessa necessità con cui educa un uomo a essere padrone di sé, educa lo stesso uomo a non sottomettersi alle arroganze dei potenti, alle giustificazioni di venduti, alle minacce di datori di lavoro o agli anatemi delle chiese. Ma questo non vuol dire, per tornare all’inizio, che debba formare un “partito”, anzi dovrebbe guardarsene bene. Un’arte non crea partiti, ma scuole; e non scaglia slogan rabbiosi, ma contribuisce a cambiare, lentamente e nel profondo, un modo di pensare e di vedere le cose. Ciascuno, a titolo personale, partecipa come meglio crede all’interesse generale, ma un’arte in sé non si avvelena il sangue ringhiando contro questo o quello, al contrario concentra i suoi sforzi unicamente nel rendere più forte il proprio allievo e, facendo la sua strada come se non esistessero, mina alla base il potere dei tiranni.


6.

E ora immaginatevi tutto questo in pratica. Fatelo a modo vostro, come lo faccio io col mio. Ma chi dice che è impossibile, perché troppo difficile, è come quel babbeo che pretende di saper dire come si nuota senza essersi mai arrischiato nell’acqua.

Quell’immagine del lupo che mi para davanti quasi senza volerlo, è molto lontana da quegli sfortunati che, anche facendolo dei massimi sistemi, rimangono seduti a confutare, almanaccare, polemizzare, ironizzare, dieci anni dopo ancora là, senza aver cambiato di un capello la propria forza morale, perché hanno passato il tempo ad arzigogolare invece che a verificare sulla propria pelle. Facciano come vogliono, e restino là dove sono, se questo fa loro piacere. Ma il loro esempio dovrebbe insegnarci che noi possiamo e dobbiamo essere liberi pensatori, ma anche legislatori di noi stessi. Possiamo far salotto nel foro, nulla lo vieta, ma poi al foro si prende la parola e si vota una legge. Senza mai pensare che occorra una legge perfetta per avere una buona legge, senza mai pensare che non ne siamo capaci o che non sia utile. Uno Stato libero non ha mai creduto di esserlo perché qualcuno gli toglieva il peso di far leggi: al contrario, ha preteso di farsi chiamare libero quando non ha avuto paura a esser legislatore di se stesso.

Ecco, adesso ho davvero finito. Ma questo vuol dire che per voi è appena cominciata. Se qualche parte vi è sembrata giusta, rendetela ancora più forte, dove invece sono caduto, tiratemi fuori. Ma non fermiamoci, non rimproveriamo nulla a noi stessi, e non facciamo come quelli che pensano continuamente a fare una cosa e più pensano e più è sicuro che non la faranno mai.

Qualunque sia il nostro dovere, deve trovarci mentre già lo facciamo, perché la riflessione illumina la via e fa comprendere gli errori, ma non è compito suo far da frusta e metterci in moto: per questo c’è, e c’è sempre stato, lo schiocco dell’istinto. Siamo animali dopotutto, e non enti matematici. La Ragione sta sempre più in alto di noi, ci guida e ci protegge come un cerchio che segna un limite, provando a varcare il quale si finisce presto o tardi col culo per terra. Nessuno sa come e perché, ma l’animale e la ragione possono essere buoni compagni, e legarsi con uno stesso colore. Tutto il resto che è dentro il cerchio e fuori, è oscuro e incomprensibile, un enigma inestricabile, un indovinello insolubile, come diceva Darwin. Ma solo chi ha perso il lume si fa prendere dal panico, come quei bambini – scrive Lucrezio nel suo grande poema – che immaginano nel buio chissà quali mostri e ombre. Irragionevolezze come queste hanno causato sciagure allo Stato e quindi a tutti noi, e noi dobbiamo ricordarci che è duro acquistare uno Stato libero, ma durissimo difenderlo.


Salute a tutti, e state lieti.


U.

Uujimtal, la differenza tra viaggiatore e turista


Michele sta vivendo in Giappone e presto partirà per un viaggio tra Corea e Mongolia, fino ai primi giorni di settembre. Ha definito lui stesso questa lettera un capolavoro del nulla, anche se l'obiettivo è quello di rispondere ad una prioritaria domanda:

"vuole, anche un viaggiatore, vivere per qualcosa di più nobile che se stesso?"

L'obiettivo è spingere a riflettere quale sia la sottile linea di demarcazione tra il turista e il viaggiatore, per capire poi cosa ha di nobile il viaggiatore stesso. Come anticipazione di quella che potrebbe essere la mia risposta, mi permetto una breve riflessione che tenterò poi di riformulare in maniera più estesa anche in vista della seconda lettera di Michele.

Difficile dire che non ci sia un poco del turista in ogni viaggiatore e un po' di viaggiatore in ogni turista. Se identifichiamo con turismo, solo il piacere ricreativo che deriva dal viaggiare, allora la distinzione è quasi impossibile perchè anche il viaggiatore in sè lo fa per un suo piacere personale, o bisogno necessario, identificabile con altri aspetti: la comunione con la natura, la sfida, la pace, il cambiare aria. Ma comunque si rimane nella cerchia del piacere personale.

Se identifichiamo il turista con l'industria del turismo, allora il discorso cambia e si escluderebbe la grande categoria dei viaggi impacchettati in cui non si vive, ma attraversa un luogo, si snatura lo stesso, si trasforma una città in un parco divertimenti. Non si guadagna più di tanto e si dà anche meno. La distinzione si attua quindi solamente in differenti modi di spostarsi, dormire, mangiare e relazionarsi durante il viaggio.

Ma anche qui, diventa difficile distinguere il turista squattrinato che pertanto viaggia in maniera low cost, sebbene più genuina e divertente, dal viaggiatore cosciente ed incallito. Dal turista che ha momenti di riflessione sul posto che sta attraversando e dal viaggiatore che attraversa in completa solitudine senza guardare con troppa attenzione oltre la sua spalla.

La differenza forse sta dentro di noi. E allora entriamo nell'etica della cosa, creando necessariamente una distinzione e gerarchia di valori, condivisibili o meno. Viaggiatori si diventa nel momento in cui osserviamo cercando di comprendere, parliamo cercando di comunicare, diamo senza prendere soltanto; scambiamo qualcosa con i luoghi e persone che incrociamo. Viaggiatori si è quando si ricerca qualcosa: viene in mente Pessoa che amava viaggiare ma ha lasciato pochissime volte la sua amata Lisboa: quando desiderava evadere prendeva uno dei tanti tram che salivano per le colline e si perdeva nelle facce, odori e racconti della gente incontrata per caso lasciandosi andare alla immaginazione. Evadeva e allo stesso tempo ricercava, quasi frugando tra la gente.

Il viaggiatore vero, incallito, patologico, è quello che ha bisogno di viaggiare. Colui che deve conoscere gli altri, il mondo per necessità personale e per aspirazione. Chi dentro di sè è nomade, soffre nel rimanere sedentario troppo a lungo, freme seduto su una sedia. La forma tramite la quale si esplica sono particolari, talvota importanti, talvolta meno. Prendere l'areo, la nave, il treno o attraversare un continente in bici può fare la differenza, ma la predisposizione di spirito è quella che veramente distingue un viaggiatore.


Tornando alla lettera di Michele, il considerarsi esseri dalla forza morale superiore, lo considero poco credibile e autoreferenziale, anche se il viaggiatore può e deve dare il suo contributo alla società. Una società di viaggiatori è una società con meno paura, ma nominarsi guida o esempio da seguire è forse esagerato. Quella del viaggio è più simile all'attività di ricerca o avanscoperta, un'avanguardia che capisce forse prima degli altri e può condividire, maturando una coscienza anticipatoria, ma non può imporre. L'adunata al branco, oltre che recriminazioni sessiste, può generare fraintendimenti, per cui conviene aspettare il seguito della lettera.


Per chi volesse partecipare alla discussione, può lasciare direttamente un commento o scrivere direttamente a Michele qui: uujimtal@gmail.com



La sottile linea del Viaggiatore



di Michele Flori


"Questa lettera va a tutti i compagni viaggiatori del mio Paese, perche’ soprattutto chi, per un’allegra esuberanza o per un cuore gravato da mille turbamenti, medita e progetta di uscirne ad ogni pie’ sospinto, puo’ comprendere il senso di cio’ che vorrei dirvi. E anche se i mezzi di cui dispongo sono limitati, nello scegliere le parole piu' felici come nel dar corpo a quelle ombre di pensieri che passano, non fateci caso, chi scrive e' la cosa che ha meno importanza. Sento un richiamo e la testa si volta da sola, guardate a quello, e non a chi col suo retino tenta goffamente di rincorrerla.

Cosa distingue un viaggiatore da un turista? Entrambi si spostano attraverso costumi e paesaggi stranieri; entrambi partono, incontrano, passano, forse rimangono, e tutto il resto e' lasciato ad un fato aperto in cui ognuno si lancia come meglio crede. Ci sono molti che riempiono il proprio profilo con liste di paesi presi dai cinque continenti, e si considerano dei viaggiatori per questo, mentre non hanno fatto altro che girare. Altri hanno percorso il mondo a piedi, ma sarebbero da definirsi piu’ dei bravi atleti che dei viaggiatori. Dov’e’ allora quella differenza cosi’ sottile che puo’ sfuggire a un occhio esterno, eppure e’ cosi’ enorme? Ci ho pensato parecchio, e la risposta che sono riuscito a darmi e’ che il turista, qualunque sia il posto in cui vada e i mezzi che usi, non e’ mosso che da un capriccio personale. Non sente un dovere piu’ alto che lo chiami fuori, e’ soltanto smanioso di vedere cose nuove. Il suo e’ un viaggio di piacere, e checche’ ne dica, il piacere deve essere suo. E’ un avventuriero quando il tempo, i principali, le finanze e gli affetti glielo consentono. Vuole "incontrare nuove culture", e con questo di solito intende qualche piacevole conversazione o indossare strani cappelli.

HC, e gli altri siti, dispensano questo facile giocattolo: non ho nulla da ridire, utilizzo volentieri HC per dare e ricevere un tetto, e sottrarre ricavi all’infida razza degli albergatori, e volentieri faccio nuove conoscenze. Senza contare che i gruppi sono un bello strumento per riunire le persone intorno a un tema, che spesso e’ interessante. Ma un viaggiatore e’ qualcosa di piu'.

Allora non solo attraversa in silenzio le montagne e i boschi, non solo bussa alla porta dei villaggi e si fa inghiottire da sterminate megalopoli ma, guidato da un ideale etico e civile, percorre un mondo parallelo, alla ricerca delle scuole di pensiero, degli esperimenti sociali, dei modelli di vita piu' svariati, elaborati dalla passione morale e dall'intelligenza umane, a volte dall'ingenuita', spesso dal talento. Dagli eco-villaggi alle comunita’ egualitarie, dai kibbutzim alle scuole di arti marziali (alzi la mano chi conosce, ad esempio, il ki Aikido Institute, una scuola di aikido in Giappone che prevede un regime di vita “comunitario”) e Dio sa cos’altro ancora: una mappa completa di questo mondo non esiste, solo frammenti. Non un mondo virtuale, anonimo e senza responsabilita’, che dei disgraziati prendono per fine invece che per mezzo, ma un mondo reale, dove sperimentare nella vita vissuta l’applicazione, talvolta il tradimento, delle idee umane di giustizia e di valore. Ed esplorando questo universo sconosciuto, colui che si e’ messo in viaggio puo’ aprire dei sentieri che mettano in comunicazione gli sforzi degli uomini di creare un futuro migliore. Puo’ indicare, ai fratelli che la societa’ di massa ha umiliato e schiacciato, posti insospettati dove poter ricominciare a credere in qualcosa di nobile. Puo’ riporatre a casa il meglio di cio’ che ha visto, e migliorarlo ancora.

Ma c’e’ dell’altro.

Costretto a saper distinguere tra saggezza e mistificazione, a scegliere sempre la via piu’ impraticabile, perche’ soffrendo molto s’impara molto, chiamato ad anteporre il proprio vagare a tutte le piu’ dolci sicurezze, piu’ simile a un lupo che a un uomo, a vivere vite differenti, a diminuire i suoi bisogni per conservare la liberta’, a cambiare prospettiva tante di quelle volte da correre il rischio di non ricordare piu’ nemmeno il suo nome, anche il lupo-viaggiatore puo’ divenir parte di quel mondo che va esplorando, e anche quella dei lupi puo’ divenire una scuola, dove imparare a usare e a trasmettere il frutto piu’ bello di tutte le sue fatiche e di tutta la sua arte: quello della forza morale, di cui un'intera generazione ha un disperato bisogno. E schierarsi insieme agli altri per quella rivoluzione civile che si prepara dietro le nubi e che fa arrivare di lontano muggiti ancora indecifrabili. Questo non e’ un sogno di mezza estate: e’ il preciso dovere e il piu’ alto ideale del viaggiatore.

Perche’ il vero viaggiatore ha da essere filosofo, persona di cultura, buon compagno, padrone di se stesso, allegro guerriero pronto a dare addosso ai suoi timori e pregiudizi. Segue ed elabora una disciplina morale che lo precipita in ogni genere di situazione e gli impone di restare in piedi, difficile, preclusa alla gente comune. Ma, come recita la chiusa dell’Etica di Spinoza, e come ci dice ogni giorno l’esperienza, le grandi cose sono necessariamente difficili.

Ora, io mi chiedo se questa cosa grande e difficile, non sia davanti a noi. Mi chiedo se non sia da tirar fuori unghie e arrotare denti per mettere in pratica questo ideale etico. Dico "etico" e non "spirituale", e vorrei fosse ben chiaro che non sto parlando di cercare astruse metafisiche o bizzarri predicatori - e chi e' una testa diritta ha gia' capito.

Io so che non sono solo, che ci sono altri lupi. E mentre preparo la bisaccia, aspetto con le orecchie tese il richiamo del branco. Perche’ soltanto un branco unito puo’ riuscire dove un individuo da solo, o un gruppuscolo nato per morire, falliscono. Agli altri, ringrazio e auguro belle fotografie, belle schitarrate, e un bel sorso d’acqua del fiume Lete per dimenticare in fretta quel che ho scritto.

Salute a tutti, e state lieti.

U."



venerdì 5 marzo 2010

Storie marsigliesi - II/II


Ecco come promesso il secondo post dedicato alla Francia e a Marsiglia in particolare:

Un esperimento radiofonico volto a conservare in un documento audio, anziché per iscritto, riflessioni a tre voci su identità nazionale, repressione identitaria, cultura popolare e dinamismo della lingua, passando per musica occitana e rap di protesta francese.

Grazie all'ospitalità di Radiossina è stato possibile raccontare un paese vicino come la Francia, e una città particolare come Marsiglia, tramite racconti di esperienze vissute e riflessioni frutto di lunghe ricerche. I temi affrontati nella puntata di Orient Express - Storie marsigliesi spaziano dalla storia ed evoluzione della lingua francese a quella dei dialetti italiani, dall'immigrazione italiana del Novecento a Marsiglia al paese multietnico che è la Francia di oggi, dalla celebrazione di Grandi Eventi culturali a cosa sia l'arte in generale.

Dialogo a tre voci interrotti da canzoni francesi, qui sotto ecco i link alla puntata divisa in tre parti:

Storie Marsigliesi - Prima Parte

Storie Marsigliesi - Seconda Parte

Storie Marsigliesi - Terza Parte