mercoledì 24 marzo 2010

Caserta e le sue cave*

Le strade casertane sono sempre terminate con quegli sfondi, scorci di cave simili a gole di montagna, il paesaggio a cui ci si è abituati da troppo tempo. Non deve essere sempre stato così, eppure per chi ha un’età inferiore a quella dell’età estrattiva, per chi è nato e cresciuto qui negli ultimi venticinque anni, quella vista ha eroso lentamente la misura della cose sino a pensare che sia stato sempre così.

I giovani non hanno memoria di paesaggi differenti così come è diventato difficile immaginare futuri differenti. Le memorie fatte di immagini intrasmettibili dei più anziani sono state lentamente scavate, pietra dopo pietra, lasciandoci a venticinque anni soli, senza identità e senza territorio.

Scavo dopo scavo, Caserta e i comuni fiancheggianti i colli tifatini sono diventati l’immagine dello scempio: “Nel 1954 le aree di cava nella catena dei monti tifatini erano di appena ottantasette ettari su un’estensione complessiva di quasi quindicimila. Oggi, nella sola città di Caserta, le aree interessate dalle attività estrattive ammontano a circa mille ettari, trentasei campi di calcio distrutti e sottratti alla collettività, ogni anno”. Le associazioni ambientaliste casertane lo ricordavano già nel 2005, in un documento di proposta per l’istituzione del parco urbano dei “colli tifatini”. Si respirava ottimismo all’indomani di un’indagine quale l’Operazione Olimpo avviata dalla Magistratura nel 2004 e conclusasi in primo grado nel 2008 con “il fatto non sussiste”.

Il gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Antonio Pepe, mandò a casa gli undici imputati del processo nato dall’inchiesta del sostituto procuratore Donato Ceglie che condusse a vari arresti tra i cavaioli e al blocco totale delle cave che circondano l’area tra Caserta e Maddaloni. Distruzione di montagne intere, canoni non versati, bonifiche mancate, falsificazione d’atti, corruzione, danno alla salute, disastro ambientale, ma “il fatto non sussiste”.

“Un’offesa all’intelligenza” fu la reazione a caldo dei pm, Donato Ceglie e Paolo Albano, ora ricorsi in appello. La stessa strategia si ripete oggi come allora: applicare sistematicamente leggi non scritte in esatta contrapposizione a quanto previsto per le bonifiche, la tutela del paesaggio, i rischi idro-geologici, la salute dei cittadini, la salvaguardia del territorio. Un giudice che non vuole ascoltare, un territorio che fa finta di non vedere, ma che consapevolmente subisce: il copione che si sta recitando è quello ben collaudato degli ultimi venti anni che ha fatto letteralmente scomparire le montagne a causa di un’ attività estrattiva perpetrata falsificando macroscopicamente autorizzazioni, ordini di servizio, esplosivi, cartografie, planimetrie al fine di poter cavare illegalmente. Gli attori ieri come oggi sono politici e cavaioli rappresentati oggi dal sindaco di Maddaloni Michele Farina, dalla Provincia e Comune di Caserta, dal Genio Civile, dall’Autorità forestale, dall’Autorità di Bacino regionale della Campania nord-occidentale e dalla Cementir s.r.l del gruppo Caltagirone con i suoi avvocati.

Nel mese di novembre 2007 la Cementir s.r.l ha fatto istanza al Genio Civile di Caserta per l’approvazione di un progetto di “coltivazione e recupero ambientale in ampliamento”, con soluzione di continuità, su un sito ricadente nel Comune di Maddaloni sul versante orientale del Monte S. Michele. Il progetto di “recupero ambientale in ampliamento” si divide in quattro lotti della durata complessiva di venti anni.

Dopo più di un anno di conferenze di servizi gestite dallo stesso Genio Civile di Caserta che fu definito “braccio armato che illegalmente operava nell’interesse dei controllati” dai pm delll’Operazione Olimpo, il 2 Marzo si è tenuta la quindicesima Conferenza di servizi, e tra poco si terrà la prossima, volta ad approvare a tutti i costi la continuazione dell’attività estrattiva a favore del gruppo di Francesco Caltagirone, proprietario anche del Mattino di Caserta. La fantasiosa idea di recupero ambientale, da effettuare tramite ampliamento della cava, si realizzerà nell’apertura di un’ulteriore immensa voragine sul lato orientate della collina di S. Michele esattamente alle spalle dei Ponti della Valle, opera ingegneristica vanvitelliana che rifornisce d’acqua la Reggia di Caserta e patrimonio Unesco dal 1997.

Per prendere coscienza della situazione in cui versa l’ambiente casertano bisogna salire laddove il paesaggio diventa la migliore sintesi visiva del territorio. Dalla cima di S. Michele l’area appare una grande groviera di colline letteralmente sventrate a colpi di dinamite, in profondità, sino a mostrare i nervi tesi di roccia bianca che digrigna i denti. La lenta erosione è divenuta apparente immobilità, lasciando indifferente chi osserva il paesaggio solo da lontano. Bisogna salire, toccare con mano le pareti calcaree, sporcarsi di polvere bianca i pantaloni, arrivare lì in alto dove si possa osservare il tutto per trasformare lo sfondo in cruda realtà. In più di venti anni è avvenuta una guerra illegale condotta contro il territorio comprendente i comuni di S.Prisco, Casagiove, le frazioni di S.Clemente, Tredici, Garzano, Centurano, Parco Cerasola del comune di Caserta e numerosi siti del comune di Maddaloni. L’ impressionante estensione di bianco delle cave ben visibile su Google maps, assume l’estensione del reale quando si osserva da vicino. L’immensa Cava Vittoria, oggetto dell’ampliamento “volto al recupero ambientale”, ti sovrasta senza possibilità di replica.

Decido di salire sulla sommità della Cava lasciandomi alle spalle il cementificio Moccia e la Cava Iuliano, passando per Parco Cerasola noto la Cava di Santa Lucia, ora trasformata in parcheggio per i fedeli della domenica dell’omonima chiesa salvata dalle ruspe. Attraverso la valle di Garzano e le sue cave ad “effetto meteorite”, tra scorci di campagna rigogliosa e colline scorticate, immaginando quello che sarebbe potuto essere e non è stato, sino ad arrivare all’ingresso del santuario di S.Michele. Questo luogo di pellegrinaggio ormai circondato da cave, letteralmente sull’orlo del precipizio, forse rappresenta l’ultimo avamposto di umana civiltà che ancora resiste quassù. Rimarrà forse una croce a memoria della montagna simbolo di una civiltà ormai scavata all’interno.

Perché non importa se qui ci sono un vincolo di dissesto idrogeologico, un vincolo paesistico per un bene Unesco e non saranno rispettati; non importa se c’è il vincolo di rimboschimento e gli alberi saranno abbattuti; non importa se l’area è stata percorsa da incendi e non si potrebbe svolgere alcuna attività per quindici anni; non importa se il costruendo Policlinico non entrerà mai in funzione fintantoché cave e cementifici saranno attivi, se ai cavaioli è stato imposto di delocalizzare e non lo fanno, se l’area è stata definita dal Piano Regionale Attività Estrattive zona altamente critica e si continua a scavare, non importa se tutti sono collusi nel distruggere anche le ultime cose rimaste.


Quel che importa oggi è che la Cava Vittoria ha divorato la montagna lasciando immensi gradoni che lambiscono ormai la strada sull’estremità della montagna. Un cartello ripetuto più volte minaccia di non oltrepassare pena la denuncia dei trasgressori. Quel che importa oggi è che osservando il circostante tutto ti chiede di dire basta a chi vuole continuare come prima, come sempre, da quando sono nato.



*Questo articolo è già apparso sulla rivista napoletana Monitor

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