giovedì 28 maggio 2009

Ogni domenica


Le abitudine sono le stesse da una sponda all'altra del Mediterraneo. La stessa voglia di stare assieme, lo stesso appetito.

C'è chi dice che la cultura non esiste, c'è chi dice che tutto è cultura. C'è chi dice che la cultura va protetta, conservata, e chi sostiene che essa è in continua evoluzione, pertanto inutile proteggerla, inutile anche definirla, basta viverla.


La Spagna, sotto questo punto di vista, è un paese pieno di stimoli. E' un paese che abbiamo sempre considerato come a noi vicino, il più vicino del bacino mediterraneo. Più dei Francesi, che sono nostri cugini, ma alla lontana, più dei Greci, dei Turchi, dei Maghrebini. La Spagna è stata spesso considerata come una seconda casa italiana. Come noi, uguali a noi, nel bene e nel male.
Ma al di là delle similitudini, la Spagna ci assomiglia un poco anche nelle differenze, nelle loro strutture. Nella variegata diversità presente in questo paese. Il nazionalismo qui non è molto amato, un po' come reazione alla lunga dittatura di Franco, un poco perchè ci sono forti movimenti indipendentisti, come quello basco e quello catalano. Pertanto, la Spagna come insieme unico ed omogeneo è un artificio politico-culturale, uno stratagemma di marketing, per creare un'immagine di riferimento appetibile all'estero, per il turismo.

Una volta incontrai un palermitano emigrato a Parigi che gestiva un ristorante italiano, parlammo del nostro paese. E lui mi disse "l'Italia, è un paese virtuale". In fondo, non era così lontano dalla verità. Gli stati nazione, unificati per volere, e con la forza, da una sua parte più forte hanno conservato fino ad oggi forti differenze interne, volendo distinguersi a tutti i costi dall' insieme di cui fanno parte. Penso alle forti differenze culturali presenti in Italia, ai dialetti, le tradizioni che negli ultimi anni godono di attenzione maggiore, una ricchezza.

La Spagna è simile, è divisa in 17 regioni autonome e ha ben quattro idiomi ufficiali. Il basco, il catalano, il galiziano, ed il castigliano. Lingue completamente diverse l'una dall'altra. Cosa sarebbe l'Italia oggi se avessimo mantenuto le diversità linguistiche delle nostre regioni, se le avessimo conservate, tutelate, insegnate a scuola?

Mi domando sul diritto-dovere di proteggere e valorizzare una cultura, se così avessimo fatto, la mia cultura stessa oggi sarebbe differente. Maggiormente marcato il carattere contadino-campano-napoletano, una ricchezza o un'impoverimento? Avrei perso molto altro delle altre regioni, degli altri paesi. E' difficile dare giudizi di valore, se si segue la definizione di cultura come insieme di credenze e competenze che si apprendono in quanto membro della società, quindi grazie allo stare con gli altri, la cultura forse andrebbe tutelata quando minacciata da eventi troppo forti, quando si rischia di distruggere e di perdere saperi, anziché di innescare un cambiamento degli stessi, una loro evoluzione naturale, dovuta, auto-determinata, bella o brutta che sia, che ci appaia giusta o sbagliata.

Pensando agli stati-nazione, alle interazioni culturali, all'esistenza di connotati mediterranei, passo una domenica spagnola nel piccolo pueblo di Fonelas in profonda Andalucia, un paesino che ha un bar, una discoteca-pub e intorno tanta campagna . In un paese così piccolo, e per certi versi così chiuso, così lontano dalla storia, dagli altri, dovrebbero stupire le similitudini con noialtri.



Infatti, l'artificio di cui sopra è evidente in Fonelas. Perché trovi una madre con grembiule che segue la cucina con i tempi calcolati dall'esperienza. Non ci si riunisce solo poco prima del pranzo, ma si accompagna con la propria presenza la lavorazione, la celebrazione di qualcosa di sacro.

Fonelas fa pensare a quanto sia importante la cultura legata al territorio. Quanto possa dipendere da esso. Dai suoi elementi più semplici e profondi. La cultura mediterranea caratterizza determinati paesi, non tanto in base alle loro interazioni storiche, ad i loro scambi, ma soprattutto grazie alla loro dialettica storica col territorio. Il luogo comune del sole, del mare, della giornata calda, condizionano fortemente le abitudini e l'agire quotidiano, creando così una cultura. Una cultura però così determinata è legata ad uno specifico spazio fisico, non ad un suo spazio politico, si creano sacche culturali, che si possono riprodurre a distanza, essere completamente diverse da quelle del paese accanto, ma identiche a quelle del corrispondente paese italiano.

Questo giustificherebbe la sensazione di similitudine culturale materiale, perché strettamente dipendente dalla natura e dagli artefatti umani.
Questo insieme di abitudini, saperi, norme di paese, di casa, di mamma, dimostrano esattamente da cosa può dipendere la cultura stessa. In una società più chiusa, in quei luoghi che non sono connettori globali, le variabili che intervengono nella dialettica culturale, sono di meno, acquisiscono maggiore importanza e sono relativamente più semplici. Il lavoro al campo, le stagioni, i prodotti della terra, la famiglia, la casa, la festa alla vita e allo stare insieme che si celebra ogni domenica.

Fonelas conferma che la cultura è qualcosa che viene trasmesso, rappresenta il piccolo paese che si contrappone a quelle reti globalizzate, le città, ma non solo, che diventano luoghi in cui si apprende una cultura altra, internazionale, ma de-territorializzata. Per questo Ulf Hannerz è arrivato ad affermare che "una cultura è una struttura di significato che viaggia su reti di comunicazione non localizzate in singoli territori".

La domenica di Fonelas, invece, è strettamente legata al territorio, al suo vino casero, alla morcilla, al salcichon fatto in casa, e alla paella che sta alla domenica spagnola come la lasagna, o la pasta al forno, stanno alla domenica italiana.


giovedì 14 maggio 2009

Paesaggi andalusi

Case in semplici. Bianche, che non superano i tre piani e la cui caratteristica principale è rappresentata dal balconcino con la ringhiera in ferro battuto. Questa l'essenza dei paesini andalusi. Costituiti da palazzi che in non sono complicati, con le pareti più spesse di quelle che siamo abituati a fare oggi, in modo da aumentare la massa ed il tempo di trasmissione del calore, che non richiedono la costruzione di gru, caldi d'inverno e freschi d'estate. In parole povere la casa della nonna.


Il palazzo in , non è niente di speciale, non è bellissimo, immaginato da solo con la campagna intorno non ci spingerebbe a prendere la macchina fotografica. Eppure, quando sono messi uno a fianco all'altro, quando vanno a formare una strada, una curva, un agglomerato, ed infine un paese, guadagnano l'un l'altro da questa coesione, da questa vicinanza. Il paese diventa bello, armonioso, affascinate, una spiaggia bianca circondata dal mare della campagna, un'isola felice.


Giro per i paesini andalusi nella provincia di Ronda e penso. Vedo campagne vive, rigogliose, non urbanizzate, paesaggi naturali che accettano armoniosamente paesi altrettanto armoniosi.
La bellezza mi fa sempre pensare. Penso all'Italia e alla sua urbanizzazione, allo stato delle sue campagne, alla bellezza che ne resta.


Penso alla bellezza delle città. Penso che quando entriamo in una città, la prima cosa da fare è dirigersi verso il centro storico, anche se per questi paesi non soggetti a grandi flussi turistici, quasi non ce ne sarebbe bisogno, sono belli così come sono anche da fuori, da lontano, autentici già dalla prima casa.

Ma penso che purtroppo questa sia l'eccezione piuttosto che la regola. Infatti, quando si va in visita in una città la sola cosa che si desidera vedere e conoscere è sempre e solo il centro storico, come se fosse il cuore pulsante, l'essenza della città stessa. Cosa che in realtà non è. Tutti oggi vivono in condomini, aree residenziali dall'aria condizionata e dal posto auto, i veri luoghi dove si cucina, si mangia, si studia, si litiga, ci si lava, s'incontrano gli amici, ovvero dove si svolge la propria vita. Luoghi ben diversi dai centri storici che rimangono comunque l'unica parte interessante di una città. Tutto il resto che è periferia, palazzoni, strade larghe e cemento non interessa, giustamente. Non interessa anche se sono le parti più vive e autentiche della nostra società. Tuttavia, la prima, e spesso unica, cosa da vedere in una città rimane sempre il centro storico, segnalato da cartelli con punti concentrici, delineato da mappe che non riportano altro, perché privo di interesse, anche se è in quello spazio al di fuori delle mappe turistiche che si svolge la vita reale dei nostri giorni, in grossi condomini privi di alcun fascino.


Allora perché andiamo a visitare una città, con l'idea di poterla "conoscere", ma pensando solamente al centro storico? Cercando un merito che non appartiene ai nostri tempi. Forse un desiderio di evasione? Ricerca del folclore? Puro interesse storico o architettonico?
Fascino verso l'antico?

Parlando con un amico architetto della possibilità o meno di recuperare vecchi palazzi e centri storici, mi diceva che, sebbene oggi come oggi fosse possibile fare cose ben più belle del passato, in un certo senso vi si rinuncia, come se non avessimo più quello spirito, e che la bellezza di una pittura scolorita dal tempo rimarrà sempre qualcosa di ineguagliabile.

La domanda appare quasi banale, evidente. A tutti verrebbe da dire, perché ci sono le chiese, i monumenti, le mura, la reggia, i giardini, un palazzo del '600...sì ma anche il più bel monumento circondato di squallida modernità o contemporaneità perderebbe gran parte del suo fascino. Infatti al di là dei monumenti a cui dedichiamo qualche visita, con interesse storico più o meno fittizio, ci piace passeggiare per i vicoli, all'ombra vissuta di vecchi palazzi. Perderci in strade labirintiche, alla ricerca di scorci affascinanti, misteriosi e tipici. Ovvero ci piace entrare in un mondo ed una vita che fu, lontana ed isolata dalla attuale contemporaneità, tanto da essere così perentori nel vietare nuove costruzioni in aree di interesse storico. In realtà il carattere "storico" è solo una scusa, distoglie l'attenzione, è uno strumento di marketing, legittima azioni e piani che altrimenti non faremmo, evita la comprensione.

Innanzitutto, non c'è bisogno di grossi monumenti per fare bella una città. Tutti i paesi, più o meno piccoli che non abbiano ospitato re o papi ce lo possono confermare. I paesi andalusi ce lo mostrano.

Una città è bella quando essa è viva, autentica, e oggi la vita autentica contemporanea sta in periferia, ma forse inconsciamente la rigettiamo nel momento in cui andiamo alla ricerca di mille centri storici, dietro il paravento dell' interesse "storico". Rigettiamo la nostra vita attuale, la nostra società dei consumi, cerchiamo un luogo di vacanza dalla nostra contemporaneità.

Allora la seconda domanda che viene in mente è un'altra, possibile che non siamo riusciti a creare nulla di bello, niente che valga la pena visitare negli ultimi sessant'anni? E per far questo non serve troppo denaro, tecnica, o sviluppo, ma uno spirito, una tendenza alla bellezza che c'era ed ora non c'è più. Questa forse è la vera rottura della nostra società con il passato. Abbiamo abdicato in favore di altri parametri, rinunciando alla bellezza, alienandoci da noi stessi, come se non toccasse a noi andare a vivere in quei quartieri, in quelle strade, in quel mondo che stavamo creando.

Come affermava Pasolini nel suo documentario sulle forme delle città, tutto ciò che abbiamo costruito dal dopoguerra appare come qualcosa di "irreale", ovvero di non aderente alla realtà, come invece accadeva in passato, una realtà considerata da questo punto di vista migliore. Nelle città a misura d'uomo, nelle città che si integrano nel paesaggio e nella natura circostante, nelle case fatte per durare secoli, e non per essere abbandonate, degradate e distrutte nel giro di soli venti anni, c'è uno sguardo sulla vita diverso, direi eterno ed immortale, alla ricerca della gloria della bellezza. Uno sguardo che abbiamo perso, verrebbe da dire che abbiamo venduto la nostra anima in favore di un comodo divano davanti al televisore, indifferenti alla realtà esterna, caduti in un incantesimo di rapida felicità.

Abbiamo creato non opere, ma luoghi oggettivamente brutti, irreali, disumani, dimentichi dei bisogni naturali, dimentichi del bello. Quel bello che in passato si riusciva a creare in maniera inintenzionale, spontanea, come case simili a rocce decorate da rigogliosa vegetazione che s'integravano nel paesaggio stesso. Senza fuoriuscire dal profilo naturale, rispettando la curva di una collina, la protuberanza di una montagna, l'ombra degli alberi. Ma basta un attimo di distrazione, un palazzo troppo alto e l'armonia è rotta.


Come è possibile che in oltre sessant'anni non siamo riusciti a costruire qualcosa di bello, un solo quartiere, in una sola città italiana che sia bello? Penso ad un solo quartiere moderno che valga la pena visitare, dove si possa facilmente vedere un'armonia. Ma non ne trovo. Non ne ho mai visti. Al contrario è evidente in tutte le città l'opera di abbrutimento, palazzi, speculazioni e palazzinari, condomini figli di un'inondazione di cemento. Avremmo avuto i soldi, la tecnica, evidentemente non la voglia. Sottomessa ad interessi più forti, dimentichi della vita che fu.

E' vero che dal dopoguerra abbiamo avuto un forte flusso migratorio dalle campagne e dai piccoli paesini verso le città, creando la società moderna urbana. E' vero che il movimento è stato forte ed urgeva realizzare in poco tempo abitazioni adeguate a questa grande massa di lavoratori-emigranti. E' vero che i comfort sono aumentati passando da un casa con cortile al pianerottolo del condominio.

Abbiamo perseguito un modello di sviluppo figlio della società dei consumi, che Pasolini definiva la "vera forza fascista", l'unica che ha intaccato profondamente e quasi irreversibilmente i differenti modi di vivere che ci caratterizzavano, perdendo completamente di vista i parametri essenziali della vita quotidiana.

Ad esempio, fa rabbia e stupore guardare vecchie foto in bianco e nero della città di Caserta. Potresti vedere foto di viali alberati degli anni '50, uomini e bambini in bicicletta e tante persone a passeggio. Potresti vedere Viale Carlo III completamente alberato, che dalla Reggia andava dritto dritto verso Napoli, una galleria alberata dalla prospettiva unica, dalla cascata, giù lungo il parco fino a perdita d'occhio. Potresti vedere lo spiazzale della stazione come una larga piazza alberata, dove la stazione appare anche bella, resa romantica dal carretto delle limonate. Una armonia ed una bellezza dell'Italia profondamente provinciale, rustica, sincera, una stazione che potrebbe esser lo scenario di un romanzo di Gabriel Garcia Marquez. Potresti vedere vecchi, d'estate, seduti davanti a portoni di case-giardino dai grossi cortili interni circondati da ballatoi godendo del fresco movimento d'aria. Avresti potuto vedere tutto ciò. Prima che arrivasse il sottopassaggio che ha distrutto lo spiazzale della stazione, prima che eliminassero la prospettiva della Reggia con tutti gli alberi del Vialone, prima che costruissero condomini uniti da ponti di cemento.

Osservarla oggi, con le immagini di allora, fa sì che sia chiara la follia collettiva da cui ancora non ci siamo ripresi. Pasolini nel 1974 ne prendeva coscienza, sembrava che potesse comunicarne l'aspetto aberrante ed irreale, tuttavia sono passati oltre trenta anni e pare che solo ora stiamo faticosamente tornando ai vecchi standard andati persi. Pedonalizzando il centro "storico", appunto aspettando che diventasse "storico", allargando marciapiedi, incentivando la bicicletta e piantando alberi qua e là. Paradossalmente, non osservando vecchie fotografie, ma applicando precise direttive europee. Ma avevamo bisogno dei vari piani Urban per allargare i marciapiedi e ripiantare alberi tagliati 50 anni prima?

Avevamo bisogno di tanto tempo prima di recuperare il buon senso, prima di riuscire ad alzare lo sguardo dalla strada ingombra di macchine? Riportando il nostro sguardo al di sopra del livello della strada, osservando i palazzi proprio come se fossimo in una nuova città, in un altro mondo, che così osservato ci appare più bello, come se fossimo in un affascinante centro storico, fantasticando sulla possibilità di poter vivere lì, non alienati, ma perseguendo bellezza.

Forse oggi finalmente ci stiamo risvegliando da questo incubo, il vocabolario già è cambiato, buon segno perchè indica un pensiero diverso, termini come sostenibilità e vivibilità, fanno pensare ad altri parametri, a qualità, al futuro, ad una visione duratura, di lungo anziché di breve periodo, ad una visione pertanto bella. Perché solo la bellezza può sopravvivere al processo di selezione naturale del tempo e dell'uomo stesso. Forse tutto è avvenuto così rapidamente che non abbiamo avuto nemmeno il tempo di pensare alle conseguenze delle nostre azioni, all'utopia che stavamo creando. Ma l'unica utopia che valga la pena realizzare è quella di una bellezza eterna.

martedì 12 maggio 2009

Il tempo è scaduto!

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di Andrea Bottalico. Fotografie di Alessandro De Filippo*.



Raccontare ad un casertano che sulla Domiziana ci sono le puttane è come indicare ad un mercante di pietre preziose il peso reale di un carato. E’ impossibile che lui non lo sappia. Noi sin da bambini abbiamo imparato involontariamente due cose “fondamentali”. Primo: la totale mancanza di fiducia verso chiunque, qualsiasi essere vivente materiale o immateriale che sia. Secondo: il luogo in cui le puttane vanno a battere. E non certo perché sognavamo di andarci, sulla Domiziana. Nel nostro immaginario erano tutte laggiù, accumulate in quel luogo indefinito e apparentemente lontano dalle nostre strade sicure, perché sin da piccoli, quando si trattava di offendere qualcuno, nei campetti di calcio del Buon Pastore o nei cortili di scuola, usciva sempre, e dico sempre, la solita ingiuria, quella che scaldava gli animi prima delle colluttazioni, il preludio di una qualsiasi rissa, l’apice della provocazione:

«Che hai da guardare!? Uomo di merda! Vieni qua, vieni! Vieni che ti piscio in testa! La sai tua madre?! Tua madre fa la puttana sulla Domiziana!!..»
Alla luce del mattino, sotto il sole o la pioggia, nelle notti tra i mazzoni. La faccia graffiata dal vento che leviga pelle che vende pelle minacciata. Sono ombre vive, le detenute del litorale. Le guardi ma non le vedi. Respirano! Non si tratta delle mignotte cantate dai cantori di un tempo andato. Nessuna “Bocca di rosa” o “Marinella” dagli occhi grandi quaggiù. Non ce ne sta una che lo faccia per noia o per passione. Un sentimento così umano non può avere luogo in questa arteria stradale, e laddove ci sia passione, questa non si trova di certo sotto forma di donna schiavizzata, ridotta a merce, bestia da soma, ingranaggio. Ha perfettamente ragione chi afferma che la Domiziana sia una sorta di laboratorio del futuro. Ed eccole qua, “le zoccole”: eccole qua le cavie di questo laboratorio. Ogni perimetro di quel corpo, ogni grammo di quella carne, ogni miserabile fascino la dice molto più lunga di quanto non possa sussurrarci. Quando è cominciato tutto questo? E’ una forma di schiavitù che non pone assolutamente le sue radici in un passato arcaico. Non stiamo parlando del lavoro più antico del mondo, tanto per intenderci. Le radici sono piantate qui. Inestirpabili. In questo eterno presente che scorre inesorabile lungo la Strada Statale 7 Quater (SS7/QTR), via Domitiana, a neanche trenta chilometri da Napoli. In un mondo arcaico non esistevano ancora certe forme di schiavitù razionalizzata e sistematica, organizzata nei minimi dettagli, oliata nei passaggi, disciplinata e scrupolosa, dettata da una violenza psicofisica, tecnica e gerarchizzata. Esistevano altre forme di schiavitù, beninteso. Ed allora mi ritrovo costretto anche io, lungo questa strada come sopra un filo del rasoio, in questa bella serata, a cercare qualcuno o qualcosa che possa rispondere alle mie inutili domande o forse al mio insano rancore.

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A puttane! Dopo aver percorso questa strada durante tutto l’inverno mi ero abituato ad avvertire il freddo che usciva dalla terra, pensando si trattasse di una condizione permanente, una caratteristica climatica del litorale. Invece no, la primavera non ha risparmiato nessuno. In questa serata oltre il tramonto mi accompagna un sapore che tutto avvolge, facendomi sentire meno solo per un istante. Poi mi accorgo di guidare la macchina sulla stessa strada teatro di una strage di immigrati ignari persino del significato della parola camorra. Sembra sia passata un’eternità da quella notte del 18 settembre, ma in verità non è passato neanche un giorno, perché qui il tempo è completamente fermo. Immobile. Qui il tempo è scaduto. E il futuro è già passato davanti a tutti noi e noi non ce ne siamo neppure accorti. Come potevamo, del resto? Non ne abbiamo avuto il tempo. Con gli occhi rincorro gli occhi delle puttane che in certi tratti di marciapiede non si riescono a contare. Anche loro puntano direttamente alle mie pupille dilatate, perché anche loro hanno degli occhi, a differenza di quegli schiavi dell’antichità raccontati da Erodoto, quelli a cui gli Sciiti strappavano gli occhi al fine di assoggettarli meglio alla loro funzione servile. Le puttane del litorale Domitio, almeno in questo, possono ritenersi fortunate. Hai la netta impressione che ti stiano sussurrando qualcosa, con quegli sguardi: qualcosa di incomprensibile, di veramente incomprensibile. Senti il loro alito ammalato, e le labbra carnose schioccano al tuo passaggio: lanciano baci. Hanno quasi tutte il viso brillante, imbrattato dalla cera, mentre il riflesso di questa luce si staglia sui loro volti facendole sembrare beate, iridescenti. Sono gli automobilisti il loro barlume di speranza, ma ciò che per me vuol dire speranza per le puttane vuol dire dittatura. Sarebbe stato meglio non esserci mai venuti, da queste parti. Ci sono moltissime donne che vengono iniziate proprio qui, fanno apprendistato, per così dire, “imparano l’arte”. Molte infatti non conoscono per niente l’italiano, a parte le classiche parole del mestiere che gli aguzzini le hanno insegnato. E poi non c’è bisogno di imparare nessuna lingua per fingere un orgasmo. Capita spesso di incontrarne alcune che non parlano per niente, conoscono soltanto i prezzi delle prestazioni, e per il resto del tempo manifestano il loro dissenso attraverso il lutto del silenzio. Eppure, in questo scenario, la loro presenza rimanda ad una possibile divagazione su ciò che io intendo per bellezza. Una divagazione che fallisce sul nascere, naturalmente. Perché qui la bellezza è una condanna, anzi la peggiore delle condanne. Come un castigo. E la bellezza degli oppressi ferisce, mutila. Al di fuori del loro sguardo, non ha potere la lama di nessun coltello, come disse il poeta. E mentre scruto questa condizione, senza volere mi vengono in mente tutti i paesini desolati dell’alto casertano, quelli che mio fratello mi ha iniettato attraverso le sue entusiaste descrizioni; arrampicati sulle montagne del Matese e del Taburno, imbevuti di vigneti, accanto alle sorgenti. Nascondigli di storie che la memoria non potrà mai tradire, villaggi in cui briganti leggendari trovarono rifugio, laddove gli anarchici Cafiero e Malatesta cominciarono ad appiccare il fuoco di una disperata rivolta. Luoghi ormai abbandonati, di un fascino che ammutolisce. Quei paesi in cui “si sente l’assenza di chi se n’è andato e quella di chi non è mai venuto”. Cosa c’entra con le puttane non saprei dirlo, ma Il nodo che lega il litorale Domitio a questi luoghi opposti è proprio il loro fascino sinistro, la loro tragica e quanto mai repressa bellezza, il loro triste destino, con una differenza: lungo la Domiziana si sente la presenza di chi c’è sempre stato e l’assenza di chi avrebbe dovuto esserci. E mai come in nessun luogo si vede ciò che la mano umana è stata capace di combinare. Il risultato è il peso morto della solitudine. La stessa solitudine che probabilmente intravedo negli occhi impauriti di queste puttane, lungo il litorale. Non esiste bellezza più straziante.

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C’è poco da fare. Ogni volta che vengo a sentire l’aria che si respira da queste parti io ricordo l’amore. Non si tratta di quel senso del piacere effimero che provi quando sei spensierato tra le braccia di una donna. E’ qualcosa di più indispensabile. E se una divagazione azzardata sulla bellezza fallisce sul nascere, una riflessione sull’amore in questo tremendo contesto sarebbe un sacrilegio. Eppure è più forte di me. Penso all’amore, e scavo nelle immagini di un passato lontano, quando avevo dei sogni che adesso non sono più. Nulla di sdolcinato, sia chiaro. L’amore di cui sto parlando racchiude in sé qualcosa di estremamente essenziale e misero, uno strumento per sopravvivere senza soccombere a questa umiliazione quotidiana. L’amore di cui sto parlando è l’unico che vale la pena di assecondare!

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Sessanta miliardi di euro l’anno: sono queste le cifre approssimative quando si parla dei profitti della tratta di esseri umani. Un affare colossale, impossibile da circoscrivere nella sua totalità. La prostituzione da tratta produce da sola un giro di affari di sette miliardi di euro: un mercato secondo soltanto al traffico internazionale di stupefacenti. Una puttana “rende” al suo sfruttatore diecimila euro al mese, e in Italia le donne sfruttate e vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale sono circa centomila. Ma questi sono soltanto numeri. Sfuggono alla reale condizione delle donne costrette a prostituirsi lungo il litorale e altrove. Sopra la pelle delle ragazze nigeriane c’è il profumo dell’invisibile mondo dei trafficanti di esseri umani e di stupefacenti. Un mondo che non si riesce totalmente ad afferrare, perché troppo vasto. Di queste pratiche economiche sviluppate lungo il litorale si arriva a vedere soltanto il frutto marcio, il triste risultato, lo schiavo reso ormai schiavo da molto tempo. Ogni anno mezzo milione di nuove donne è immesso nei paesi dell’Europa occidentale. Il litorale Domitio è diventato uno snodo fondamentale, e chi ha consentito tutto questo era sin dal principio consapevole dei profitti ricavati senza alzare un dito. Ormai è chiaro che senza il business della prostituzione non esisterebbe alcun traffico internazionale di stupefacenti, e di conseguenza nessun tipo di spaccio al minuto lungo la Domiziana: gli investimenti del primo vanno ad irrorare il mercato del secondo. I particolari dell’operazione “Viola”, portata avanti dalla Direzione distrettuale Antimafia di Napoli, forse rendono l’idea: il 20 aprile scorso i carabinieri del Ros hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 62 indagati responsabili di associazione finalizzata alla tratta di esseri umani, riduzione in schiavitù, sfruttamento della prostituzione e traffico internazionale di stupefacenti. Nel corso delle indagini sono stati arrestati in flagranza 49 corrieri, con il complessivo sequestro di 60 chili di eroina e 120 chili di cocaina. I provvedimenti hanno interessato Castelvolturno, il Lazio, il Piemonte, l’Emilia Romagna, l’Umbria, La Lombardia, la Nigeria, La Turchia, la Bulgaria, l’Olanda, la Colombia e il Perù. Per la prima volta sono stati accertati i collegamenti tra i network nigeriani ed i narcotrafficanti colombiani. Si tratta di indagini avviate dai carabinieri nel febbraio 2007 in stretta cooperazione con la polizia olandese, nei confronti di un network transnazionale di matrice nigeriana, responsabile della tratta di centinaia e centinaia di donne provenienti dal paese di origine ed introdotte illegalmente negli stati dell’area Schengen per essere sfruttate sessualmente. La base operativa era Castelvolturno. Le indagini hanno anche accertato come il finanziamento della tratta avvenisse attraverso il traffico internazionale di cocaina ed eroina. La distribuzione del narcotico veniva affidata a gruppi di connazionali attivi in particolare a Torino, Brescia, Padova, Verona, Roma e Napoli. Ecco perché non bisogna guardare più soltanto il litorale, ma dentro le sue viscere, al di là della realtà visibile, oltre quei corpi seminudi, in quei dieci chilometri di pineta abbandonata e distrutta, attraverso quella strada tagliata di netto tra le campagne ed il mare, quella feccia di mare. Bisogna guardare altrove. Intanto Il 18 aprile, due giorni prima dell’operazione dei Ros, oltre diecimila persone, tra migranti e rifugiati, studenti e associazioni antirazziste, sindacati e movimenti, hanno manifestato dalla Domiziana a Castelvolturno, nell’anniversario della strage degli immigrati africani del 18 settembre scorso.

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Cambia la luce, cambiano le forme, cambia la geometria abusiva di questa strada statale. Il buio s’infittisce e gli spiragli si affievoliscono. E più mi inoltro verso Mondragone, più mi sento sprofondare. Una catabasi infinita: Lago Patria Ischitella Lido Castel Volturno Pescopagano Le Morelle Pineta Nuova Baia Azzurra Baia Domitia. Iniziano ad apparire puttane dalla pelle chiara. Sono dell’est. Se lo sono spartiti bene il marciapiede. Bande di albanesi violenti e “benefattrici” nigeriane dal cuore redento per grazia di pastori pentecostali con un briciolo di carisma, il giorno prima schiave, il giorno dopo carnefici unte da chissà quale mistura; hanno fatto carriera, loro. Le Madame gestiscono il ciclo della prostituzione nigeriana dal principio alla fine. Hanno il permesso di soggiorno, molto denaro per investire, corrompere, comprare e vendere ragazze, pagare estorsioni, e sono organizzate in associazioni di facciata registrate legalmente, dai nomi autorevoli: “Sweet mother”, “Supreme ladies association”, “Great Binis association”. Se una Madame tiene in pugno un’impresa composta da una ventina di donne, non è difficile calcolare i profitti settimanali. In fondo le Madame “non fanno nulla di male”, non hanno problemi con la coscienza, anzi. Questi trafficanti di marionette si sentono innocenti. Ma perché di puttane ce ne sono soltanto in questa lingua di terra e non nelle sue viscere? Le nigeriane, ad esempio, oltre al litorale Domitio sono costrette a battere pure le strade nei dintorni di Capua, Marcianise, Teverola, per poi spostarsi nelle strade periferiche dell’Italia intera. Perché non a Villa Literno, Casapesenna? Perché non a San Cipriano d’Aversa, a Villa di Briano? Frode allo stato, controllo degli apparati pubblici, gestione del ciclo del cemento, appalti, traffico di sostanze stupefacenti, estorsioni, traffico di rifiuti tossici: c’è chi sostiene che la camorra nostrana in passato favorì lo sviluppo dello spaccio al dettaglio e della prostituzione gestita da nigeriani ed albanesi lungo il litorale Domitio per “distrarre” le forze dell’ordine, impegnate in tal modo a reprimere queste attività illecite visibili alla luce del giorno piuttosto che indagare sui traffici miliardari delle retrovie. Come se un’attività illecita di facciata riuscisse a nascondere i veri affari dei clan che comandano il territorio. Una sorta di diversivo? Non può essere così semplice. Sta di fatto che né la polizia né i militari della Folgore hanno assolutamente represso queste attività, avallando la tesi del “male necessario”. Come se fosse cosa da poco. In fondo che cosa c’è di male? Cosa vuoi che siano delle mignotte costrette a battere lungo una strada di periferia? “Sai quanti stupri e quante violenze sessuali alle donne in più ci sarebbero se non ci fossero loro a far sfogare il branco?”

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Scende la sera lungo la Domiziana. L’ennesima sera. Le ragazze a tratti formano dei gruppetti numerosissimi. Si sentiranno meno sole se lavorano in gruppo. Le osservo per l’ultima volta prima di andare via. Osservo per l’ultima volta quegli occhi truccati sotto i capelli neri, quelle cosce nude ed impacciate negli stivali ed i tacchi a spillo. Le luci dei lampioni in fuga creano un’atmosfera arancione che s’infrange nel vuoto della pineta selvaggia. Ma ormai è troppo tardi, dannazione! Sarà meglio tornarsene verso casa.

Castel Volturno. 23 Aprile 2009


*Questo racconto-reportage è già apparso su Nazione Indiana il 6 maggio 2009.