giovedì 27 marzo 2008

Libertà turca

"Dovremmo anche ricordare che il diritto della maggioranza è di solito riconosciuto unicamente all'interno di un dato paese e che non sempre un paese è un'entità naturale ed ovvia. Certo, non riteniamo che sia diritto dei cittadini di un paese grande dominare quelli di un piccolo paese confinante, solo perché più numerosi. Non c'è ragione perché la maggioranza di un popolo, che si sia unito per un qualche scopo, sia esso una nazione o un'organizzazione sopranazionale, si debba considerare come avente il diritto di estendere a suo beneplacito l'ambito del proprio potere. La teoria corrente della democrazia soffre del suo vizio d'origine: si è generalmente sviluppata con riferimento a una comunità idealmente omogenea e poi è stata applicata alle unità molto imperfette e spesso arbitrarie costituite dagli stati esistenti".*

L'estensione delle competenze altrui o meglio la rinuncia a proprie competenze e poteri, in Turchia, spesso è vista come un attacco alla propria libertà. La libertà turca spesso coincide con la propria identità. Un attacco alla libertà viene concettualizzato come un tentativo di cambiamento coatto alla propria storia, alle proprie leggi, alle proprie istituzioni, ai propri simboli. Ovvero alla propria identità.
Ma l'identità spesso viene sminuita ad una bandiera, un inno, un confine su una mappa geografica, spesso per comodità o pigrizia, o per cecità, non si riconosce la reale profondità dell'identità. L'identità non può essere un'entità unidimensionale; è multisfaccettata, è complessa e profonda. Definirsi in un unico modo, in modo totalitario, oltre ad essere terribilmente sminuente, sarebbe cosa ipocrita, oltre che inutile. Passiamo la vita per modellare un'identità adulta e matura, siamo creta indefinita per tutto il tempo, e poi facilmente invochiamo un'unica chiara identità quando rapportati all'altro.
Così, nonostante tutti siano fieri della natura cosmopolita di Istanbul, tutti ricordino con orgoglio i diversi paesi d'origine, il colorato e sfaccettato passato dell'impero ottomano, la diversità che li ha creati, improvvisamente la memoria vacilla e tornano unicamente turchi quando si ha un nemico, un pericolo, o una questione straniera da affrontare.
Si sa il pericolo esterno rafforza il senso di comunità, ma impoverisce e appiana lo spirito critico.

Così gelosi della propria sovranità popolare, rifiutano, sono spaventati in maniera che a noi può sembrare completamente irrazionale, un'eventuale ingresso in Europa. Sono realmente spaventati di perdere la propria identità, l'uso della propria moneta, della propria bandiera, l'uso della propria democrazia. Vogliono conservare tutti i possibili mezzi a loro disposizione per un uso democratico della maggioranza. I principali attriti generati da eventuali emendamenti alla Costituzione turca e dal diverso trattamento che dovrebbe essere concesso alle minoranze sono percepiti come una limitazione della propria democrazia, della propria sovranità.
Gelosi del proprio potere democratico di limitare libertà altrui. Una perdita di tale potere, viene percepito paradossalmente come una perdita della propria libertà, che passa per la libertà della maggioranza di difendere la propria identità a scapito della minoranza.

Per cui non vogliono condividere poteri e libertà con paesi, al cui interno sono presenti partiti politici che sostengono il diritto delle minoranze curde e armene, paesi che hanno rinunciato così facilmente a i propri confini nazionali, che hanno abbracciato altre popolazioni e un'altra bandiera. Paesi visti come frivoli, dediti solo al dio denaro, che svendono la propria identità a buon mercato.
L' Europa come una grande comunità cristiana che tenta di colonizzare il vicino Oriente.

L'immagine accettata della comunità europea come limitatrice di libertà sopravvive e si rafforza in un paese in cui il nazionalismo crescente porta a censurare regolarmente youtube, a causa di filmati non rispettosi dell'identità turca, di Ataturk, o pro-Kurdistan e dove per contro un partito islamico democratico, l' AKP di Erdogan, tenta di cambiare la Costituzione laica a colpi di maggioranza. Sopravvive e si rafforza un'immagine europea che vuole limitare il potere statale di cambiare le regole a colpi di maggioranza, che vuole limitare il potere coercitivo grazie ad una condivisone di principi comuni di libertà accettati da minoranze e maggioranze, che vuole evitare una democrazia dogmatica in cui il governo della maggioranza sia illimitabile e illimitato.
Un principio al momento non compatibile con la libertà turca.

"L'essenziale rimane sempre lo stesso: l'accettazione di quei principi comuni è ciò che di un insieme di persone fa una comunità. E questa comune accettazione è la condizione indispensabile per una società libera. Un gruppo di uomini diviene normalmente una società non promulgando delle leggi, ma con l'obbedienza alle stesse norme di condotta. Ciò significa che il potere della maggioranza è limitato da quei principi comunemente accolti, oltre i quali non esiste potere legittimo. E' chiara la necessità di mettersi d'accordo su come debbano essere espletati i compiti essenziali ed è ragionevole che in merito decida la maggioranza; non è ovvio però che questa stessa maggioranza debba avere il diritto di determinare la propria stessa competenza. La mancanza di un sufficiente accordo sulla necessità di certe estensioni di poteri coercitivi dovrebbe indicare che nessuno può legittimamente esercitarli. Se si riconoscono i diritti delle minoranze, ne viene che in ultima analisi il potere della maggioranza deriva, ed è limitato, dai principi accettati anche dalle minoranze.
Pertanto, il principio secondo cui ogni governo dev'essere accettato dalla maggioranza non implica necessariamente che la stessa maggioranza abbia moralmente titolo a fare quel che vuole.
[...] In realtà, solo in epoca piuttosto recente nella storia della democrazia moderna i grandi demagoghi hanno cominciato a sostenere che, se il potere è ormai nelle mani del popolo, non c'è più necessità di limitarlo. E la democrazia degenera in demagogia proprio quando si afferma che in una democrazia è giusto quel che la maggioranza rende tale".*


F. von Hayek,
La società libera

giovedì 20 marzo 2008

Navi a vapore



"La diffusione delle navi a vapore e il loro utilizzo nel Mediterraneo dopo la seconda metà del XIX secolo, oltre a cambiare improvvisamente il panorama della città, accorciò la distanza tra Istanbul e i centri europei, determinando l'arrivo, per un breve periodo, di molti viaggiatori occidentali i quali scrissero di getto qualcosa sulla città formando con il materiale letterario accumulato un'idea di Istanbul sviluppata poi dagli scrittori turchi.


Dopo la fondazione delle Linee marittime e la costruzione di moli in tutti i piccoli villaggi della zona, e con il passaggio delle navi a vapore su e giù per lo stretto, in realtà cambiò non solo il panorama del Bosforo, ma anche quello di tutta Istanbul. (Ricordiamo che la parola vapur, battello, ormai entrata nella nostra lingua e nella vita quotidiana della città, deriva dalla parola francese vapeur e indica i due aspetti di questo mutamento). E non parlo solo della trasformazione dei villaggi del Bosforo e del Corno d' Oro, che si svilupparono rapidamente e cominciarono a far parte della città grazie ai battelli e alle piazze sorte intorno ai moli. (In precedenza, molti villaggi dello stretto non avevano strade).




Queste imbarcazioni, che portavano viaggiatori su e giù per il Bosforo, cominciarono ad essere conosciute in tutta la città da Kizkulesi a Santa Sofia, da Rumelihisari al ponte di Galata, e inserendosi completamente nella vita quotidiana diventarono una bandiera, un simbolo in grado di dare agli abitanti di Istanbul l'idea di vivere tutti insieme in una grande città. Per questo, proprio come la fedeltà, l'affetto, e l'attenzione particolari dei veneziani per i loro vaporetti, anche i miei concittadini si affezionarono e amarono uno dopo l'altro i battelli delle Linee marittime, pubblicando libri pieni di loro fotografie. "

Orhan Pamuk, Istanbul






giovedì 13 marzo 2008

Babele di lingue

"Sei hai un nemico, devi conoscere la sua lingua. Quando l'avrai imparata, non sarà più un nemico, ma solo un avversario"

Nelson Mandela


La lingua, il nostro patrimonio più importante, la nostra identità più forte. Lingue negate, non riconosciute, non capite, lingue ufficiali, lingue internazionali. Quanto difficile deve essere non poter parlare la propria lingua, abbandonare poco a poco espressioni, che uscivano come uno spiro di vento dalle nostre labbra, su una zattera ancorata alla riva del nostro cervello, parole, frasi che rappresentano il nostro modo di reagire al mondo, il nostro modo di esprimere stupore, di sorridere alla vita. Quanto è difficile dover rinunciare a queste parole, suoni articolati che hanno senso e importanza solo per noi, una rinuncia che provoca un senso di solitudine, un che di inespresso, qualcosa di frustrante dentro di noi, spinge il nostro pensiero ad autocorregersi per non rimanere isolati in un magma di suoni indecifrati e indecifrabili. Posso capire benissimo i migranti che cercano, ricreano le proprie comunità, per sfuggire all'iniziale assordante vuoto di senso. Il desiderio di parlare la propria lingua, riutilizzare il proprio pensiero nella veste originale diventa irresistibile, anche potendo parlare inglese, francese, iniziando a masticare il turco, la lontananza del proprio idioma è fortissima. Gli Italiani ad Istanbul sono alquanto rari, io personalmente non ne ho conosciuti ancora, e l'italiano, il buongiorno mattutino, il "tutto a posto?", il dialetto, il "ce' facimm' nu'cafè" , sono così lontani da me adesso, me ne rendo conto quando il sogno non è più in italiano, quando non dico più "e che cazzo!", ma "what a fuck!?", quando faccio fatica a immaginare, a creare un pensiero lucido, preciso, esatto, esaustivo, completo e colorato nel momento in cui vedo qualcosa di nuovo.

Come è possibile far fatica adesso per parole, pensieri che erano così veloci? Che cosa comporta tutto ciò? La lingua, non è solo necessaria e finalizzata alla comunicazione pura e semplice, essa è veicolo di cultura, della nostra cultura, della nostra identità, della nostra storia. Non si può conoscere profondamente una persona con una barriera linguistica nel mezzo, utilizzare una terza lingua come l'inglese, oppure comunicare in una delle due, ma senza averne la piena padronanza comporta un approccio superficiale, un approccio puramente informativo ma non veramente comunicativo. Quanto si rimane lontani dalla nostra idea originaria di pensiero se dobbiamo esprimerci in un'altra lingua? Certo possiamo trovare l'espressione equivalente, ma non sarà lo stesso concetto, la stessa sfumatura, ci troviamo a comunicare tramite una terza cultura presa in prestito, che a sua volta si sta impoverendo. E' una situazione in cui due persone vogliono avere un contatto, ma hanno un vetro doppio e trasparente giusto nel mezzo, si ha l'illusione di toccare l'altro, la trasparenza filtra i movimenti e le informazioni, ma non possiamo sapere se siamo caldi o freddi, abbiamo l'illusione del contatto, senza riuscire a toccarci.

Quanto deve essere difficile per uno straniero, un migrante in cerca di lavoro e di una vita migliore, vivere in questa barriera di silenzio e oltrepassarla solo al costo di essere qualcos'altro, di parlare, agire, formulare un pensiero o un azione in un altro modo, secondo un' altra cultura, tramite un altro paradigma, tramite un'altra struttura.

La nostalgia comincia con la mancanza della propria lingua, quando la mente non segue più i solchi d'origine, ma si appresta ad una povertà di espressione che durerà forse per sempre, forse per il tempo di dimenticare la ricchezza di immaginazione che avevamo.

giovedì 6 marzo 2008

Camera con vista


“Coloro che durante gli anni di scuola ci avevano insegnato che il Bosforo era la chiave della conquista di tutto il mondo, il cuore geopolitico della terra e per questo motivo tutte le nazioni e tutti gli eserciti, specialmente i russi, volevano conquistare il nostro Bosforo, be’ avevano ragione.

Dopo l’infanzia, ho abitato sempre su una collina che vedeva e controllava da lontano, tra i palazzi, le cupole e le colline, il Bosforo. Proprio per questa esigenza spirituale di vedere, anche se da lontano, lo stretto, nelle case di Istanbul la finestra che si affaccia sul mare è come la mihrap nelle moschee, la nicchia che indica la direzione della Mecca - come l’altare nelle chiese e nelle sinagoghe - , e nei soggiorni le poltrone, i divani, le sedie e il tavolo sono sempre orientati verso il mare. E questa disposizione è alla base di quell’immagine di Istanbul che si può vedere da una nave che sta entrando nel Bosforo dal Mar di Marmara, formata da milioni di avide finestre che si ostruiscono reciprocamente la vista, mettendosi spietata una davanti all’altra, aperte a spiare le imbarcazioni e lo stretto.

Quando iniziai a condividere questa mia ansiosa abitudine con le altre persone, venni a sapere che contare le navi che passavano dal Bosforo non era soltanto una mia stranezza, ma era la consuetudine di molti abitanti di Istanbul simili a me, di diverse età, che davano un’occhiata dalla finestra e dal balcone allo stretto e contavano le navi per capire se i disastri, la morte o i grandi sconvolgimenti erano in arrivo o meno, mentre scorreva la loro vita quotidiana. Ad esempio avevamo un parente lontano che abitava in una casa, con vista sul Bosforo, in collina a Serencebey, vicino a Besciktasc dove avremmo traslocato anni dopo anche noi, il quale si era preso l’impegno di annotare su un quaderno le navi che passavano di lì. E un mio compagno delle superiori affermava che ogni strana imbarcazione che vedeva – vecchia, arrugginita e a pezzi, e di cui non si capiva il paese d’origine – portava segretamente armi ad un certo gruppo di ribelli in Unione Sovietica, o avrebbe sconvolto i mercati internazionali per il petrolio che aveva con sé.

Queste manie possono essere considerate le conseguenze di una cultura pretelevisiva in cui guardare dalla finestra e distrarsi era un passatempo importante. È possibile anche ritenerle il prodotto secondario del piacere illimitato di osservare il panorama del Bosforo. Ma dietro alla passione di contare le navi e alle fissazioni di questo genere di molti altri miei conoscenti, c’è un’altra paura che la gente di Istanbul si porta dentro: la trasformazione della loro città, che un tempo filtrava la ricchezza di tutto il Medio Oriente, in un posto misero e triste, desolato e pieno di rovine a causa delle guerre che l’impero ottomano ha intrapreso con l’ Occidente e la Russia.


Questo mutamento ha reso gli abitanti di Istanbul introversi e nazionalisti, continuamente sospettosi degli stranieri, dei luoghi lontani, degli occidentali e, alla fine, di tutte le novità e di tutto ciò che reca un impronta straniera. Inoltre quelle persone, proprio come me da piccolo, non sono riuscite a levarsi il timore dei disastri che potevano sconvolgere la loro città da un momento all’altro, la paura di sconfitte e rovine nuove, e questo per centocinquant’anni”. *



*Orhan Pamuk, Istanbul


domenica 2 marzo 2008

Io sono un gatto





Istanbul è un gatto a cui piace il sole




Istanbul è un gatto a cui cola il naso



Istanbul è un gatto che guarda sornione