giovedì 13 marzo 2008

Babele di lingue

"Sei hai un nemico, devi conoscere la sua lingua. Quando l'avrai imparata, non sarà più un nemico, ma solo un avversario"

Nelson Mandela


La lingua, il nostro patrimonio più importante, la nostra identità più forte. Lingue negate, non riconosciute, non capite, lingue ufficiali, lingue internazionali. Quanto difficile deve essere non poter parlare la propria lingua, abbandonare poco a poco espressioni, che uscivano come uno spiro di vento dalle nostre labbra, su una zattera ancorata alla riva del nostro cervello, parole, frasi che rappresentano il nostro modo di reagire al mondo, il nostro modo di esprimere stupore, di sorridere alla vita. Quanto è difficile dover rinunciare a queste parole, suoni articolati che hanno senso e importanza solo per noi, una rinuncia che provoca un senso di solitudine, un che di inespresso, qualcosa di frustrante dentro di noi, spinge il nostro pensiero ad autocorregersi per non rimanere isolati in un magma di suoni indecifrati e indecifrabili. Posso capire benissimo i migranti che cercano, ricreano le proprie comunità, per sfuggire all'iniziale assordante vuoto di senso. Il desiderio di parlare la propria lingua, riutilizzare il proprio pensiero nella veste originale diventa irresistibile, anche potendo parlare inglese, francese, iniziando a masticare il turco, la lontananza del proprio idioma è fortissima. Gli Italiani ad Istanbul sono alquanto rari, io personalmente non ne ho conosciuti ancora, e l'italiano, il buongiorno mattutino, il "tutto a posto?", il dialetto, il "ce' facimm' nu'cafè" , sono così lontani da me adesso, me ne rendo conto quando il sogno non è più in italiano, quando non dico più "e che cazzo!", ma "what a fuck!?", quando faccio fatica a immaginare, a creare un pensiero lucido, preciso, esatto, esaustivo, completo e colorato nel momento in cui vedo qualcosa di nuovo.

Come è possibile far fatica adesso per parole, pensieri che erano così veloci? Che cosa comporta tutto ciò? La lingua, non è solo necessaria e finalizzata alla comunicazione pura e semplice, essa è veicolo di cultura, della nostra cultura, della nostra identità, della nostra storia. Non si può conoscere profondamente una persona con una barriera linguistica nel mezzo, utilizzare una terza lingua come l'inglese, oppure comunicare in una delle due, ma senza averne la piena padronanza comporta un approccio superficiale, un approccio puramente informativo ma non veramente comunicativo. Quanto si rimane lontani dalla nostra idea originaria di pensiero se dobbiamo esprimerci in un'altra lingua? Certo possiamo trovare l'espressione equivalente, ma non sarà lo stesso concetto, la stessa sfumatura, ci troviamo a comunicare tramite una terza cultura presa in prestito, che a sua volta si sta impoverendo. E' una situazione in cui due persone vogliono avere un contatto, ma hanno un vetro doppio e trasparente giusto nel mezzo, si ha l'illusione di toccare l'altro, la trasparenza filtra i movimenti e le informazioni, ma non possiamo sapere se siamo caldi o freddi, abbiamo l'illusione del contatto, senza riuscire a toccarci.

Quanto deve essere difficile per uno straniero, un migrante in cerca di lavoro e di una vita migliore, vivere in questa barriera di silenzio e oltrepassarla solo al costo di essere qualcos'altro, di parlare, agire, formulare un pensiero o un azione in un altro modo, secondo un' altra cultura, tramite un altro paradigma, tramite un'altra struttura.

La nostalgia comincia con la mancanza della propria lingua, quando la mente non segue più i solchi d'origine, ma si appresta ad una povertà di espressione che durerà forse per sempre, forse per il tempo di dimenticare la ricchezza di immaginazione che avevamo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bel post complimenti.