domenica 27 gennaio 2008

Divengo, dunque sono


Nonostante tutto Filip viaggia, si muove, si agita, sente il bisogno di farlo. Dimenarsi in uno spazio senza sapere se la particolarità della vita sarà il movimento stesso; la realtà è quella che noi attraversiamo o esiste ed esisterà indipendentemente da noi?

C'è chi considera l'esistenza del mondo indipendente dalla propria vita, indipendente da quello che dirai e farai oggi, variabili ininfluenti, spettatori, dove la propria vita è costituita dalla visone e partecipazione alle esistenze altrui.

Del resto è possibile sentirsi liberi e vivi nel presente anche rimanendo fermi. In un romanzo di Sciascia il capitano Bellodi va ad intervistare un sospetto, un tale pregiudicato che dopo anni di galera passa tutta la sua giornata al centro di una piazza, come in meditazione ed in dolce attesa "perchè la libertà è qui dentro" dice, puntandosi il dito alla testa.
Del resto si può vivere benissimo nell'immobilità:

"Pessoa si domanda in un celebre libro: “a che scopo viaggiare? A Madrid, a Berlino, in Persia, in Cina, al Polo; dove sarei se non dentro me stesso e nello stesso genere delle mie sensazioni?” (Pessoa, 1986, p. 98). Egli ne il libro dell’inquietudine si pone sovente il dilemma se il senso del viaggiare risieda effettivamente nell’atto dello spostarsi o più semplicemente in uno stato mentale: “Cosa significa viaggiare e a cosa serve viaggiare? Qualsiasi tramonto è il tramonto; non è necessario andare a vederlo a Costantinopoli. E il senso di libertà che nasce dai viaggi? Posso averlo andando da Lisbona in Cina, perché se la libertà non è in me non la troverò da nessuna parte” (p. 76).

Egli soleva addirittura viaggiare salendo casualmente su un tram, e da li amava osservare il mondo: penetrare con lo sguardo i suoi ignari compagni di tragitto, lasciarsi sedurre da ogni minimo gesto e particolare, scrutandoli fino nell’intimo più profondo, disvelando ogni singola esistenza e così facendo potendo infine affermare: “la testa mi gira (...). Ho vissuto tutta la vita” (p. 135)."(Il Neo-Nomadismo nell'era globale)

Sentirsi vivi. Siamo passati dal cogito, ergo sum al navigo, ergo sum, sebbene molti sostengano che sia possibile sentirsi al centro del mondo dal centro di una stanza, è innegabile che il solo pensiero, la sola immaginazione, anche la sola informazione non possono renderci lo spessore, le sfumature del mondo. Sottovalutando l'importanza dell'esperienza, con l'atteggiamento di chi sa, ha già visto e sentito un po' di tutto ci precludiamo tutto il resto. Nè esperienza, nè pensiero da soli danno conoscenza; per pervenire ad essa sono necessari i dati sensibili e l'intelletto che li organizzi. Come direbbe Kant "senza l'intelletto la nostra conoscenza sarebbe cieca e senza l'esperienza sarebbe vuota".

Allora muoversi anche per vivere, viaggiare anche per divenire, immergersi nella realtà e filtrarla anche a costo di una visione parziale, relativa, cioè umana. Muoversi e riflettere, perdersi e ritrovarsi, essere in una piena incertezza anzichè in una vuota sicurezza.

"Ma l'uomo che ritorna dalla breccia del muro non sarà mai proprio lo stesso dell'uomo che era andato: sarà più saggio ma meno presuntuoso, più felice ma meno soddisfatto di sè, più umile nel riconoscere la sua ignoranza, eppure meglio attrezzato per capire il rapporto tra parole e cose
". (Huxley, 1954)

Io sono vivo


Io sono vivo. Io sono giovane, io mi sento vivo. Lavoro, studio, amo, viaggio e mi stresso, dunque sono vivo. Filip, 21 anni, ha passato un periodo della sua vita in UK, cameriere, lavapiatti, facchino, ha lavorato, ha imparato un'altra lingua, è tornato a casa. Tczew non è troppo piccola per lui, è una di quelle persone orientata all'azione che affronta con leggerezza le difficoltà, perché in fondo le difficoltà vere non lasciano spazio a soluzioni, non è necessario fuggire altrove se riesci ad organizzarti dove vivi, mantenendo il centro del proprio mondo, i propri amici di sempre, la propria casa. Riesce a trovare un lavoro come fotografo, una passione che aveva sempre coltivato, riesce a sostenersi anche negli studi, vive con i suoi genitori, ma partecipa alla spese comuni in casa. Gli amici di sempre hanno messo su una band, rock/indie, lui non suona ma non per questo è escluso dal gruppo, diventa il loro manager, organizza concerti, selezioni, li porta addirittura ad esibirsi in diretta di venerdì sera alla prima radio nazionale.
Filip vive intensamente ogni attimo della sua esistenza, dopo un anno senza quasi fermarsi decide che è ora di prendersi una vacanza, cioè trovarsi in un qualsiasi luogo dove riacquista la libertà di diventare ciò che vuole. Libera una settimana al tempo fagocitato dai suoi impegni, può sembrare non molto, ma è sufficiente per volare a Roma e poi a Barcellona. Conoscere nuove persone, evadere, in fondo la vita è anche evasione, tornare fuggiasco nella solitudine, andare al cinema o ad un concerto da soli dove la compagnia o meno è lasciata al dubbio del caso, conquistarsi quei momenti di solitudine non provocata dagli altri, non emarginazione, ma bisogno fisiologico, meditazione e riflessione. L'unico modo per sentire, soli con la propria immaginazione, la vertigine di un sogno.

Vivere al costo di espandersi, sempre e comunque, fermarsi al costo di rimanere soli. Filip è proiettato nella sua vita, le sue scadenze, i suoi impegni, i suoi obiettivi. Ma l'evoluzione a cui si va incontro è diventare qualcos'altro fuori da , io sono quel che faccio. O meglio io sono quello che devo fare perché è nel momento in cui si progetta, si pianifica, si razionalizza il da farsi che abbiamo una condizione pensante ed individuale. Nel momento in cui facciamo qualcosa, nell'atto stesso di agire siamo già proiettati nel futuro.

Il presente, il passato, il futuro quale momento dà senso alla nostra esistenza? Il passato come identità, forse posizione conservatrice e chiusa; il futuro come progresso, prospettiva o punto d'arrivo. Anche nei paesi che stanno cambiando velocemente in questi anni, i paesi emergenti, come la Polonia si respira un'aria di possibilità, di progresso e ottimismo. Un futuro che ci costringe all'azione, dove perdiamo i nostri punti di riferimento, le stabilità, per forti vertigini di velocità. Il presente, è la situazione forse più difficile da capire, analizzare, indovinare. Perché vivere veramente il presente, sentirsi liberi dagli obblighi, dal futuro immediato, essere concentrati su se stessi, coscienti, consapevoli e felici, è una sensazione forse percepita nell'andare di un viaggio, ma ha un che di utopico in cui è facile mischiare il sogno e la realtà.

Possibile che facciamo più difficoltà a trovare il nostro presente, ammesso che ce ne sia uno, perché viene meno uno spazio di riflessività? O che sia il contrario, proprio perché siamo più portati a riflettere, sempre di più, sveliamo man mano l'assurdità delle cose.

"Sempre più simili a uomini bionici, cibernetici, androidi, esseri che non possono fare a meno della propria natura umana ormai ibridata dall'artificiale e che per questo necessitano costantemente di un rimodellamento della propria identità, siamo veramente convinti che la scelta riguardo a chi essere e in che modo vivere dipenda necessariamente da noi stessi?" (Il Neo-Nomadismo nell'era globale)

martedì 22 gennaio 2008

sabato 19 gennaio 2008

Libertà e integrazione

Così come sono state presentate le forme di integrazione, la scelta sembra scontata. Ovvero un pluralismo culturale che non annulli le differenze, che faccia vivere più punti di vista sul mondo e sulla vita, un pluralismo culturale come conseguenza e condizione per l'apertura, per l' emancipazione, per il relativismo.

Quello che all'inizio potrebbe apparire come un grosso sforzo, potrebbe diventare un'abitudine, una condizione stessa di vita. Abituarsi tutti i giorni a cose diverse, a piccole differenze che colorano la nostra esistenza quotidiana tanto da cadere nella noia nel momento in cui non ci fosse cambiamento alcuno, tanto da provocare una vertigine di smarrimento quando si ricerca un punto di riferimento, tanto da avere un senso di vuoto se privati del cambiamento.

Una condizione in cui una fusione, una sintesi, talvolta è naturale e necessaria nei punti di contatto, se si vuole comunque vivere, condividere, e partecipare assieme.
Il pluralismo è una condizione non facile, che potrebbe avere bisogno anche dell' assimilazione come strategia di integrazione. Quando si tratta di rispettare valori che per noi non sono marginali, ma fondamentali. Perché la compenetrazione di più culture sia possibile è necessaria anche una fusione nei punti di contatto, un' assimilazione non per esercitare un potere coercitivo, ma per allargare quanto più possibile lo spazio per la nostra emancipazione, per la nostra espansione di vita, per la nostra libertà. Perché non saremmo mai liberi in assenza di regole, senza il rispetto delle regole, non saremmo mai liberi se non ci rispettassimo l'un l'altro, non saremmo mai liberi se ci prendiamo la libertà di limitare la libertà di qualcun altro.

Il discorso sull'integrazione allora diventa una questione di libertà, di riconoscimento di reciproche libertà. Uno stare assieme che arricchisca le nostre libertà e non le limiti, che arricchisca le nostre libertà di vedute, libertà economiche, libertà di movimento, che arricchisca le nostre libertà di pensiero nella misura in cui amplificando i nostri orizzonti, le nostre potenzialità, espandiamo le nostre scelte, le nostre libertà potenziali. Perché essere più ricchi di idee è essere più liberi di scegliere.


martedì 15 gennaio 2008

Tre forme di rapporto con il diverso


"Una prima strategia, che possiamo definire di assimilazione, esprime la tendenza del gruppo maggioritario a inglobare quello minoritario, facendo in modo che esso rinunci alla sua differenza e accetti in pieno, riconoscendoli come superiori, i modi di vita e al cultura della maggioranza. E' stata una delle strategie comuni negli anni delle massicce immigrazioni negli Stati Uniti, e fu codificata nel cosiddetto movimento di americanizzazione, attivo soprattutto negli anni intorno alla prima guerra mondiale, che si poneva l'obiettivo di rieducare in profondità gli immigrati in modo che assumessero in pieno la lingua, i valori e gli ideali della società americana. Si tratta della strategia che di solito si manifesta per prima nel rapporto con il diverso, e che esprime l'orgoglio ( o anche solo l'abitudine antica) per il proprio modo di essere, e insieme una percezione di minaccia da parte di ciò che la metta in discussione. Di fronte a tale minaccia una risposta può essere quella dell'allontanamento e del rifiuto; l'altra, certamente meno ostile ma nella sostanza ugualmente intollerante, è al richiesta di rinuncia alla differenza e di adattamento completo alle proprie norme.

Una seconda strategia, anch' essa presente nei primi periodi dell'immigrazione negli Stati Uniti, è quella della fusione: le diversità mescolate in un ipotetico crogiuolo ( il cosiddetto melting pot) dal quale ci si aspetta che fuoriesca una sintesi superiore, migliore dei singoli componenti di partenza. L' idea di base è che ciascuna diversità possegga elementi positivi che meritano di entrare nella sintesi finale, ma anche la fiducia che le diversità non siano tali e talmente incompatibili da precludere quel rapporto stretto che è indispensabile per la fusione. In questa prospettiva la motivazione fondamentale che dovrebbe spingere a superare le diversità è l'ipotetico maggior valore della sintesi finale: se in ciascuna cultura c'è qualcosa di buono e si riesce a fonderle, il risultato sarà la migliore delle culture possibili.

Queste prime due strategie anche se in modo diverso, portano a un annullamento delle differenze, in nome di una supposta superiorità nel primo caso del modello maggioritario e nel secondo della sintesi finale. Ma esiste anche una terza strategia, che viene detta pluralismo culturale, la quale mira invece a mantenere le differenze, valorizzando ciascuna di esse in quanto possibile arricchimento del patrimonio culturale complessivo, il quale trae la sua forza non dalla fusione indistinta, bensì dal confronto e dalla pacifica coesistenza di culture diverse."*

*da "Stereotipi e pregiudizi" di B.M. Mazzara

domenica 13 gennaio 2008

Gli apostoli dell'immigrazione


Federico ha compiuto un tragitto inverso a quello dei suoi antenati. Lui, argentino, ha deciso di tornare in Europa. Il suo albero genealogico si divide per metà in sangue spagnolo e per metà in sangue italiano. Una doppia fortuna che raddoppia le sue possibilità di scelta. Così sfruttando la congiuntura favorevole decide di fermarsi a Barcellona anziché in Italia e richiedere lì il doppio passaporto. Si aprono nuovi scenari nella sua vita e sebbene la sua cultura non sia poi tanta diversa dalla quella spagnola e quella italiana, si troverà anche lui nel suo piccolo ad affrontare problemi di integrazione.

Integrazione affrontata con strategie diverse dall'autorità costituita di turno. In un articolo di qualche tempo fa su Repubblica*, era il periodo dell'allarme romeni, così un "sociologo" francese spiegava il problema dell'immigrazione e dell' integrazione:

"Di fronte all'immigrazione di massa ci sono due sole possibilità. L'assimilazione, che attraverso l'adozione dei costumi ed dei valori del paese d'accoglienza, permette ai figli e ai nipoti degli immigrati di fondersi nella popolazione locale. Oppure la segregazione, con la nascita di comunità separate che conservano costumi e valori tradizionali."

Il francese Emmanuel Todd è una forte sostenitore dell' assimilazione, non a caso il modello dello stato francese, e arriva a dire che "occorre il coraggio di dire che la vera generosità consiste nel domandare allo straniero di accettare i nostri costumi".

Ma Todd non è un razzista o un intollerante, semplicemente con un po' di pragmatismo riconosce il fatto che "gli immigrati in fondo resteranno stranieri, anche se possono integrarsi felicemente. Mentre i loro figli invece non lo saranno più, saranno francesi o italiani. Motivo per cui hanno bisogno di aderire ai nostri bisogni e ai nostri costumi. Insomma, nei confronti degli stranieri occorre un discorso generoso, ma chiaro. Un misto di pragmatismo e comprensione. Dobbiamo comprendere i loro costumi, ma aiutandoli a fare sì che i loro figli siano come i nostri."

Al di là dell'orgoglio francese che emerge da tali parole, è implicita un'idea di superiorità del proprio sistema di valori e della propria cultura. Una cultura inclusiva, nel senso di pax romana dove la pace e l'equilibrio vengono raggiunti nel momento in cui si annullano tutte le differenze, nel momento in cui vengono eliminati tutti i diversi. Un'idea che contiene il germe dell'omologazione morale e civile, dove essere integrati vuol dire essere diventati francesi, italiani o spagnoli, dove si pretende di aderire ad un modello nazionale e totalizzante di costumi, essere integrati vuol dire diventare uguali a noi.

Al di là della superbia e dell'etno-centrismo presenti in questo modello, forse in fondo in fondo l'idea di una siffatta soluzione al problema dell'immigrazione è anche una paura del diverso e una paura del mutamento. Sembra di sentire un passo delle Leggi di Platone che afferma che "non v'è nulla di più pericoloso del mutamento".

"Ma una società aperta è mutamento, anzi essa è la istituzionalizzazione del mutamento. Il che avviene tramite la rinunzia al "punto di vista privilegiato sul mondo", al fondamento inconcusso."(Lorenzo Infantino, Ignoranza e libertà).

Come dire che non possiamo aprirci agli altri, professarci apostoli dell'immigrazione e dell'integrazione quando poi è viva in noi l'innata e ingiustificata convinzione della nostra superiorità culturale e dell'altrui inferiorità.
Per cui Federico inconsciamente ha preferito rimanere in una città di mare, calda come la sua Buenos Aires, una città aperta, abituata al mutamento e dove non si chiede al diverso di adeguarsi ai propri costumi, una città dove se tutto manca puoi prendere una nave e tornare a casa.


*da la Repubblica del 13 Novembre 2007

lunedì 7 gennaio 2008

Lotta alla munnezza

Come si fa a parlare di apertura, di scambio, della bellezza e diversità del mondo, quando la tua città brucia, la tua terra puzza, il tuo cibo è avvelenato, la tua aria è piena di diossina?

Come si fa a parlare di nuove generazioni, di fiducia, amore, quando la generazione che verrà è irrimediabilmente compromessa. Quando la tua terra è stata privata del futuro. Quando non si contano gli errori del passato, si spera di superare i problemi del presente, ma che senso ha quando un futuro sai che sarà possibile solo altrove?

Come si fa quando non si può sperare nell’anno nuovo perché invece dei botti bruciano i cassonetti, fumi neri coprono le strade e le bollicine dello spumante sono piene di rabbia. Come si fa a mangiare, festeggiare, regalare, continuare a consumare qualsiasi cosa sapendo che finirà tutto, nei sacchetti bianchi, neri, blu, gialli, trasparenti, sotto casa, come pasto per ratti, piccioni, cani, gatti, o in fumo nei tuoi polmoni, come si fa ad essere consenzienti, come si fa quando si partecipa a questo lento suicidio collettivo?

Come si fa a rimanere coscienti, a stare lontani, a viaggiare, a scrivere di mescolanza, comunità, immigrazione, assimilazione, quando vorresti essere lì nei presidi, urlare anche tu la tua rabbia, sfogarti con gli altri, essere con qualcuno che prova esattamente quello che provi tu. Come si fa ad andare avanti, coltivare i tuoi progetti, quando ti distrai in continuazione, leggi con rabbia i giornali, ti senti impotente, segui con palpitazione i video in diretta, aspetti evoluzioni, quando ti sei rassegnato ad un cambiamento. Come si fa, quando invece vuoi andare avanti per un'altra strada, un’altra vita. Una vita che sia degna di questo nome.

Si fa, perché si ha bisogno di farlo, perché se non si risponde al proprio bisogno di azione, di pensiero, di volontà, si rinuncia al proprio desiderio di vita. Perché “Sentire interiormente ciò che si è capaci di fare, è assumere la prima coscienza di ciò che si ha il dovere di fare”. Potere agire diventa dovere agire. “La vita non può mantenersi che alla condizione di espandersi così afferma Kropotkin. Allora la propria forma di lotta diventa resistenza dell’intelletto, formarsi per il bisogno-dovere di formarsi, crescere, parlare, conoscere e far conoscere, decidere, capire, sviluppare idee, fornire soluzioni, questa è la speranza. Lavorare sull’idea che altre dimensioni sono possibili. Possiamo crearle, averle, dobbiamo rivendicarle. È un diritto viaggiare, conoscere, essere liberi, è un diritto la giustizia. È un diritto vivere. Dove viver vuol dire essere fecondi, sviluppare l’intelligenza, la volontà, i sentimenti, espandersi e creare.

Una lotta che viene mutilata nell’azione, repressa dalla distanza, non può che diventare una lotta di parole, una maledizione, un’ingiuria, una condanna, un urlo, una sofferenza, una bestemmia, un appello, una preghiera.

“Sii forte, invece. E non appena tu avrai scorto un’iniquità e l’avrai compresa - un’iniquità nella vita, una menzogna nella scienza, o una sofferenza imposta da altri - , ribellati contro l’iniquità, la menzogna, l’ingiustizia. Lotta! La lotta è vita, che sarà tanto più intensa quanto più la lotta sarà viva. E allora avrai vissuto, e per alcune ore soltanto di questa vita tu non darai degli anni interi di vegetazione nella putredine della palude.

Lotta per permettere a tutti di vivere questa vita ricca ed esuberante, e sii sicuro che troverai in questa lotta gioie così grandi quali non ne troverai di simili in nessun’ altra attività.

È tutto ciò che può dirti la scienza della morale. A te la scelta”.

giovedì 3 gennaio 2008

Io sono palermitano


Io vengo da Palermo. Non dalla città di Palermo, quella dei cannoli e delle arancine, della mafia e di S. Rosalia, ma Palermo d'oltreoceano. Di cognome faccio Balbiani. Vengo dal barrìo di Palermo della Città di Buenos Aires. Io sono Federico Balbiani e vengo da Palermo, io sono argentino.



"Si dice che siano tante le sfumature culturali che avvicinano l' Italia all' Argentina ed in particolar modo a Buenos Aires.
Vuoi forse perché un argentino su tre è d’origine italiana, dopo che una numerosa colonia di emigrati calabresi e siciliani, ma soprattutto palermitani, vi s’insediò a partire dalla seconda metà del secolo XIX.
O forse perché un noto quartiere di Buenos Aires porta proprio il nome di Palermo, cuore pulsante della movida intellettuale, artistica e culturale della città.

Sull’origine del popolare quartiere della Palermo Argentina sono state fatte diverse ipotesi, ma la più plausibile ci proviene dallo storico Diego Del Pino nel suo racconto “Palermo, Barrio portegno”, edito, nel 1991.
Il libro narra di un tale siciliano Giovanni Dominguez di Palermo, giunto a Buenos Aires intorno al 1582, al tempo in cui la nostra bella città apparteneva al Regno d’Aragona.
Giovanni Dominguez si maritò (e s’assistimò) con la benestante Isabel Goméz Seravia, e alla sua morte ne ereditò tutte le proprietà, incluso un vasto terreno paludoso.
Successivamente il Dominguez bonificò il terreno paludoso, trasformandolo in fiorente giardino e frutteto ed acquisì in seguito altri fondi contigui sino ad ampliare notevolmente il suo possedimento.
Quando il siciliano morì nel 1635, le sue terre cominciarono a chiamarsi Banados de Palermo o anche Viñas de la Punta de Palermo.
Oggi il Barrìo (quartiere) di Palermo si estende per oltre 900 ettari, dove accanto alle dimore degli artisti sorgono centinaia di teatri, ristoranti, caffè antichi e case di tango, oltre al giardino botanico, uno zoo ed un grande centro esposizioni. Adiacente al parco di Palermo sorge anche un monumento di Giuseppe Garibaldi, inaugurato nel 1909.

Tra i palazzi dell’ottocento di San Telmo e La Boca e le architetture inverosimilmente europee, si fatica a pensare di trovarsi davvero in Sud America.
Buenos Aires è straordinaria, un po’ come una “Grande Mela” latina, dove ogni barrio è un mondo a sé e nessuno da solo vale a capire l’essenza della città.
A Buenos Aires come in Sicilia, ad esempio, ci si imbatte nel quotidiano di strombazzate e bestemmie automobilistiche, di posteggi “creativi”, di vasa-vasa amichevoli, nonché nell’immancabile teatrino al bar per chi, tra ammuttuna e giochini di prestigio, fa a gara per pagare il conto.
Nei piazzali e per le strade i cebolitas (cipolline), ragazzini tra i dieci e dodici anni, giocano a calcio spensierati, mentre le loro mamme, dal balcone di casa abbannìano che la cena è in tavola.
Da Alfio Basile, allenatore del mitico “Boca Juniors” di Maradona, alla neo ministra dell’economia Felisa Josefina Miceli, in quel di Buenos Aires non è difficile imbattersi nei vari Señoras y Señores Cattaneo, Lo Cicero, Manno, Lupo o Schifano.
Anche quando ci si trova a frequentare una comitiva di amici argentini, non potrete fare a meno di notare che i loro nomi andranno quasi sempre a due a due, o tre a tre o a multipli di due e tre: tre coppie di Manolo, due Luiz Fernando, quattro coppie di Pedro e qualche Josè. Ma i cognomi saranno sempre ed inequivocabilmente siciliani. Per conferma, basta scorrere i nomi della formazione di una qualsiasi squadra di calcio o di rugby argentina, o il registro di una qualsivoglia scuola: più o meno la metà dei cognomi avranno un suono a voi familiare."*

*da rosalio.it


Federico sembra appena uscito da una telenovela, sempre a ripetere "entiendo" oppure "solo una pregunta", ha lavorato e viaggiato per tutta l' America latina: Perù, Brasile, Ecuador, Cile, Venezuela, Colombia, Panama, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, Guatemala, Messico, Cuba e Uruguay. Dopo due anni ha deciso di sbarcare in Europa, per fare esperienze, vivere, e nella speranza di lavorare e guadagnare qualcosa. Mettere da parte qualcosa, far fortuna, esattamente il percorso inverso dei suoi antenati. La differenza fondamentale è che lui oggi è solo. Non fa parte delle massicce ondate di immigrazione che il secolo scorso investirono le Americhe, è un migrante solitario del suo tempo, della sua nazione, probabilmente si fermerà in Spagna, a Barcellona, il paese europeo più congeniale per un argentino. Troverà altri argentini, sarà assimilato o rispedito a casa?

martedì 1 gennaio 2008

Io sono argentino


Lui è argentino.