martedì 28 ottobre 2008

L'onda che sale

Una generazione che non si vuole dare già per vinta. Una generazione che è al punto di partenza e già si sente condannata. Una generazione che si è sentita dare della sconfitta senza nemmeno aver giocato. Una generazione ricoperta, di abusi, di schiaffi, di sputi, di merda. Un generazione di sommerso. Intelligenze, capacità e talenti. Sommersi. Una generazione che è emersa. L'apnea è finita. L'onda è salita. L'onda sale e noi cresciamo con lei.

Noi che siamo giovani, noi che siamo pronti, noi che sappiamo più di voi. Noi che viaggiamo, noi europei senza confini, noi che abbiamo un'idea di mondo. Noi figli della globalizzazione, noi abituati al diverso, noi rivoluzione silenziosa di questo decennio, noi che siamo la rete. Noi che in luoghi virtuali ci confrontiamo, noi che affermiamo il vero principio paritario, noi che navigando in luoghi sempre più estesi ci siamo conosciuti e stretti la mano. Noi che abbiamo creato la rete di persone, ora ci teniamo più forte.

Noi volevamo crescere con un'idea di futuro, che fosse bella, come ogni giovane generazione.
Ma ci hanno fatto crescere sempre con un'altra idea. L'idea di fare bene il proprio lavoro, l'idea di impegnarsi, l'idea di eccellere, l'idea di riuscire, l'idea di meritarselo, l'idea di subire, di accettare, l'idea che non serve a niente, l'idea di seguire chi sta da prima di te, l'idea di prendere altre idee, l'idea di non avere un' altra idea. Peccato. Peccato che ci abbiano sempre dato prova del contrario, peccato che ci abbiano sempre deluso, peccato che non siano stati alla nostra altezza. Perché se è vero che noi possiamo imparare dal passato, è vero anche che loro non sanno niente del futuro. Noi siamo la prima generazione in cui la velocità delle nuove conoscenze è tale, tale e quale ad un click. Istantanea, fulminea sempre turbolenta. Quanto? Troppo per loro, che non hanno il passo per coglierla. Troppo rapida per loro che hanno già ipotecato il nostro futuro.

Nell'idea che ci hanno dato, nell'idea di perderci ci siamo ritrovati. Siamo cresciuti senza valori assoluti, anzi li abbiamo visti cadere. Troppo piccoli per ricordarsi la caduta del muro, troppo giovani per apprezzare la caduta della prima repubblica, troppo ingenui per capire la caduta dello Stato, troppo impotenti per fermare un mondo che non ci interpellava mai.
Il cambio l'abbiamo vissuto anno per anno e giorno per giorno. L'abbiamo vissuto talmente, mai determinato, ma solamente subito, che l'abbiamo interiorizzato. Nel nostro stile di vita, nelle idee, nelle opinioni, nelle prospettive, nelle scelte, nei valori. Volevamo crescere con l'idea di un futuro avventuroso, flessibile ed imprevedibile. Un futuro di speranza, un futuro bello, un futuro nostro. Perché noi siamo il cambiamento, noi siamo gli ereditieri. Perché il nostro momento è adesso, da prendere ora, o non ce lo daranno mai. Perché il loro tempo è già passato, questo è il tempo che solo noi possiamo gestire e loro lo stanno abusivamente e mafiosamente occupando. Loro che non parlano nemmeno inglese, loro che non hanno idea di cosa si possa fare oggi, loro che, semplicemente non sono in grado. Il tempo delle scelte, delle idee, delle visioni, è nostro. Il tempo che hanno ipotecato, il futuro che è stato svenduto. Ciò che a noi tocca riscattare.

E lo sanno, sanno che ci lasciano un paese deficiente di democrazia, deficiente di progresso, deficiente di innovazione, deficiente di ricerca, deficiente di prospettive, deficiente di strategia. Un paese deficiente. Un paese deficiente di legalità e rispetto, un paese a conduzione mafiosa e camorristica. Il rispetto e la legalità insegnataci a casa, si imparava a calpestarla fuori. E' così che siamo cresciuti. Con il rifiuto della politica dicono, con il rifiuto del vecchio rispondo. Con l'indifferenza di scegliere affermano, con l'impossibilità di partecipare penso. Erediteremo il debito più alto d'Europa, e questo già lo sappiamo. Rappresentiamo il sacco che hanno depredato su cui vivono e vivranno. Siamo una generazione di mammoni ritengono, siamo stati condannati senza nemmeno il processo replico.

Siamo gli ostaggi dati in cambio delle loro inefficienze, i loro errori, le loro ruberie. Siamo il loro lasciapassare, il cuscino su cui si adagiano, la catena forzata della loro vecchiaia. Siamo la truffa dell'evoluzione anti-democratica nell'era della alta finanza. Avendo capito che era troppo difficile fregare i presenti, se la sono presa con gli assenti, se la sono presa con il nostro avvenire.
Ma nel momento in cui saremo i proprietari del debito di ieri, vogliamo avere la paternità delle scelte di oggi.

Oggi è il tempo del cambio. Oggi è il momento di affermare un diritto. Il nostro diritto. Il diritto di contare. Il diritto di decidere. Il diritto di intervenire. Il diritto di riprenderci il maltorto senza appello, il diritto di affermare, il diritto a cui tutti si appellano puntualmente ad ogni generazione, un diritto di proprietà, il diritto a noi stessi.

mercoledì 22 ottobre 2008

Iniziative contro la Camorra

Tramite Facebook, la rete, i blog, qualcosa si muove e qualcosa si organizza. Segnali e richiami rimbalzano come tante palline impazzite, un passa-passa di bocca in bocca, di schermo in schermo, la realizzazione dell'informazione istantanea, la conseguenza di una reazione simultanea.

Spiriti animali ed indomabili, indignazione, rabbia e urla, si concretizzano nella rete, in maniera immediata parte un appello che placa le necessità del momento, e cioè esprimersi ed agire, pregare ed intervenire. Parole come palline impazzite di un flipper che vuole fare solo punti, rimbalzano e si trasformano in azioni, in persone, eventi.

Allora troviamoci, incontriamoci, parliamoci, cambiamoci e cambiamo. Vediamo, cresciamo, comunichiamo, resistiamo, rafforziamo e proviamo, proviamo quello che dobbiamo, ovvero agiamo.



da studenti contro la camorra


"L’indignazione, la vergogna, la voglia di una società migliore ci spingono a dire No alla prepotenza e al giogo della Camorra. Abbiamo voglia di manifestare il nostro disappunto verso atteggiamenti di esplicita arroganza nei confronti di chi da anni denuncia una realtà rimasta troppo tempo nell’ombra. Abbiamo voglia di manifestare la nostra solidarietà a Roberto Saviano, perché tutti noi ci sentiamo nel mirino, perchè tutti noi SIAMO Roberto Saviano.

L’Associazione Studenti Napoletani Contro La Camorra e la NACO – Nuova Anticamorra Organizzata, invitano le associazioni giovanili, le associazioni studentesche e i giovani tutti, a compiere un gesto semplice e simbolico come quello di indossare nei prossimi giorni un nastrino, un indumento, un accessorio o qualsiasi altra cosa, di colore Fucsia. Fucsia come i coltelli di Gomorra. Quei coltelli che simboleggiano insieme la malvagità e la prepotenza dei clan camorristici che da anni tengono in pugno il territorio campano, ma che sono anche una lama di speranza. Una lama capace di tagliare il velo d’ombra che per troppo tempo ha coperto questo territorio. Un ombra che non ha reso visibile al mondo quello che accadeva qui, perché se è vero che i camorristi si ammazzano fra di loro, è anche vero che da anni il territorio campano subisce i danni e gli oltraggi di tale potere. Ma ci voleva un giovane, un giovane coraggioso e testardo che dalle pagine di un libro ha raccontato al mondo cosa significa vivere in “terra di camorra”.
Giovani come Roberto, giovani come i tanti che in territori di confine, nelle scuole di periferie, nei quartieri e nella città di questa regione quotidianamente resistono al potere dei clan.
Oggi tutti noi abbiamo il dovere civile, oltre che morale, di stringerci intorno a questa persona, perché se Roberto venisse ucciso, non sarebbe solo l’ennesima vittima del “sistema”, ma morirebbe la libertà di scrivere, la letteratura, il giornalismo di cronaca, tutti noi saremmo sempre più in pericolo.

Invitiamo quindi i giovani di questa città, e chiunque volesse unirsi a noi, a presentarsi il giorno 27 ottobre alle ore 18 a Largo S.Giovanni Maggiore Pignatelli (di fronte Istituto Universitario Orientale) per gridare insieme il nostro NO alla Camorra e la nostra solidarietà a Roberto Saviano".



mercoledì 15 ottobre 2008

In guerra nessuno è neutrale


di Salvatore De Rosa


Scrivere comporta uno sforzo. Quando la scrittura non è sfogo di un ego frustrato, quando si distanzia dalla confessione solipsistica e tenta invece di farsi interprete di un segmento di mondo, di una condizione umana, di un meccanismo sociale, allora essa è fatica e sacrificio. Questa scrittura, che non riempie pagine di un flusso di coscienza straripante ma stilla ogni frase dal lavoro di ricerca continuativo e sagace, è come un bomba ad alto potenziale, un’esplosione che coinvolge e abbraccia tutto nel suo dilagare e il cui detonatore è un sentimento per i più fuori moda: l’impegno civile. Una scrittura partigiana, che non fa prigionieri, che tradisce famiglia, affetti, appartenenza, maestri e protettori pur di arrivare là dove la cocciuta ossessione della verità conduce: a un disegno della realtà, a una mappa delle responsabilità, a un ordine nella concatenazione di cause ed effetti che producono una condizione storica, alla forma definita che fugacemente la vita assume nello svolgersi caotico degli eventi. Nessun gioco retorico, nessuna concessione al politically correct, solo fatti, racconto e la forza del messaggio affidata alla sua forma estetica.

Roberto Saviano sta sperimentando sulla sua pelle l’effetto devastante che ha sull’esistenza il prendersi carico della responsabilità di tale scrittura. La vita sotto scorta, l’allontanamento forzato dalla propria terra e ora dall'Italia, la solitudine imperante in stanze sempre diverse, l’assenza di normalità. Eppure lui è un ragazzo normale. Non un maestro di vita, né tantomeno un profeta, è “solo” un ragazzo nato in Campania stufo di computare i morti ammazzati, incapace di pregare favori per una raccomandazione, esasperato nel vedere ville sontuose di boss e deserti urbani le une accanto agli altri e del tutto alieno alla capacità di essere indifferente, di andare avanti fottendosene di ciò che ha intorno. E ora che ha dovuto rinunciare a tutto, persino all’amore, oltre alle concrete minacce dei boss deve difendersi da chi lo accusa di aver scritto per convenienza, per soldi. Ma i soldi non restituiscono l’allegria quotidiana di un giorno di sole liberi dalle preoccupazioni, i soldi non possono comprare la gioia di andare a bussare l’amico di sempre per una partita a pallone, i soldi non ti ridanno gli occhi profondi della tua ragazza il giorno che l’hai portata al mare dopo aver vagato senza meta in sella alla vespa.

Gomorra, il suo libro, ci inchioda alla nostra vita, ci sussurra “ti riguarda”, ci mostra gli anditi nascosti dello sfacelo di cui ci lamentiamo ma che non abbiamo mai voluto approfondire e indica i responsabili senza possibilità di fraintendimenti. Non è vero che non c’è la bellezza delle nostre terre tra le sue parole, anzi, la ricerca della bellezza è la linfa vitale di cui si nutrono, il senso della perdita di quella bellezza è l’impalcatura dell’inferno che ci mostra. Dopo aver letto la tragica e coraggiosa storia di don Peppino Diana, trucidato da sicari impauriti di dover ammazzare un prete, chi potrà accusarlo di dimenticare le forze contrastanti al potere dei clan, di non tenere in considerazione le “persone oneste” che pur abitano la mia terra disastrata? La verità mostrata nuda s’insinua nelle nostre giornate come una spina sotto al piede, e ad ogni passo ci chiede conto della nostra inazione, della nostra acquiescenza. Per questo è fastidiosa, per questo c’è chi la condanna ricercando cause e pretesti per depotenziarla, come se urlasse nelle sue critiche “bastardo! Perché mi hai aperto gli occhi?!”.


“non si tratta di stabilire colpe, ma di smetterla di accettare e subire sempre, smettere di pensare che almeno c’è ordine, che almeno c’è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada. Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell’unico mondo possibile sicuramente” (da "Lettera alla mia terra")


In questo scritto, ultimo ad essere pubblicato prima delle temibili rivelazioni del pentito, trasudano l’indignazione e l’amarezza nei confronti di chi, pago di sé stesso, sorseggia un caffè in un bar qualsiasi da Mondragone ad Acerra convinto che vada tutto bene, che non ci sia nessuna guerra nel perimetro che calpesta, che in fondo lui non c’entra niente con i clan. Non è così. Siamo tutti coinvolti. Per quanto possa essere destabilizzante e terribile ogni nostro gesto in queste terre è una concessione da chi detiene il potere. Dal commercio alla sanità, dalle infrastrutture ai rifiuti, le strade, il cibo, il lavoro, la salute, il divertimento, tutto è legato al filo mosso da uomini bestiali vestiti elegantemente, pochi e feroci individui che sotto la minaccia delle armi o con la convenienza che possono offrire i padroni del territorio, controllano, gestiscono, amministrano e lucrano sulla pelle e sulle anime di chiunque voglia semplicemente esistere. Nessuno è libero, nessuno può sentirsi escluso; resta la fuga o l’adattamento forzato che si risolve in connivenza, anche se non si è mai impugnata una pistola. Il dolore di Roberto, che esplode nell’incalzare della “Lettera”, si concentra nell’invocare una terza via, una possibilità che restituisca dignità agli uomini e alla loro terra: la resistenza, l’indignazione, la condanna. Il fare comunità e discuterne, scegliendo consapevolmente la parte in cui si vuole lottare. Perché in guerra nessuno è neutrale, e chi non decide viene soverchiato dal più forte e deve accettare le sue condizioni. Noi siamo in guerra perché ci hanno usurpato della capacità di decidere il nostro sviluppo, il nostro futuro. Siamo in guerra perché


“se i vostri figli dovessero nascere malformati o ammalarsi, se un’altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finirebbero nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori della stessa banca saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo forse vi renderete conto che non c’è riparo, che non esiste un ambito protetto, e che l’atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato vi ha appestato l’anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita”.


Roberto ci incita, ci urla di non abituarci ad accettare tutto questo, di non imputare la nostra assenza sul campo alla paura, poiché una vita da schiavi è peggio dei rischi di una reazione. Paura di che poi? Noi che sottostiamo alla legge dei clan siamo molti di più, abbiamo da unire le nostre forze per sognare un futuro possibile libero finalmente da un manipolo di affaristi armati.


Con la sua scrittura Roberto ci mostra noi stessi sotto una luce che ci ostiniamo a non considerare o che ci rifiutiamo di trasformare in azione, ma è la luce abbagliante della verità.

Per ora il suo sforzo non è stato vano. É solo grazie a lui che le telecamere dei media nazionali sono entrate nell’aula bunker di Poggioreale alla lettura della sentenza del processo Spartacus; è solo grazie a lui che oggi un bolognese o un milanese non possono liquidare la questione della camorra con un sorrisino di superiorità e un rimando al Sud arretrato. Ciò che sta nascendo in termini di movimento anticamorra qui in Campania porta anche la sua impronta, e molti giovani come me hanno tratto un esempio da questo ragazzo introverso che parla senza fronzoli di questioni che riguardano tutti. Un esempio, non un santino. Mi sforzo di immaginare la ribellione possibile che noi, e nessun altro, possiamo porre in atto, a partire da una rivoluzione delle nostre abitudini, delle nostre discussioni, dell’uso che facciamo del nostro tempo. In un fantasioso ascesso di rivolta al potere imposto dei clan, mi immagino tra le falangi di un esercito, con Roberto che non è un generale, ma semplicemente il soldato al mio fianco. Poiché non abbiamo bisogno di capi e strateghi, sappiamo esattamente cosa fare: riconquistare la nostra dignità

Un libro

Un libro. Il libro. E' riuscito a cambiare il modo di vedere le cose, il modo di pensare, di agire, di scegliere. Un libro, le parole, unite al coraggio hanno potuto tutto questo.
A chi ha sempre creduto che le parole nulla potevano, che tanto vale provare a dimenticare, a partire, fuggire, o peggio a non pensare, ad essere indifferenti e conviventi conviene guardare cosa è successo da due anni a questa parte, come noi campani siamo visti ora, terre conosciute solo dai loro stessi abitanti sono diventate luoghi conosciuti ai più, sulla bocca di tutti, terre che hanno cambiato l'immaginario collettivo.

Un libro, un successo grazie alla scelta dei lettori, dei cittadini avidi di sapere, di informazione. Un successo che, paradossalmente, anziché premiare proprio chi aveva scelto di restare, resistere a tutti i costi, di vedere e far vedere le cose in modo nuovo, chi ha portato il cambiamento, chi è riuscito proprio in quello che più manca, costringe a partire. Quasi una maledizione, giovani che fanno la fila per partire, e lui che aveva deciso di restare per fare qualcosa e farla con successo è condannato a partire. Non è una resa, non è un abbandono, è un diritto richiedere quello che tutti hanno già senza aver dovuto combattere per essa, una vita.

Allora da questo blog che fa del viaggio, delle scelte che determinano partenze e ritorni il suo filo conduttore parte un augurio, che sia partire per poi tornare. Che sia un viaggio pieno di piacevoli sorprese, che sia di ricarica, rinvigorente, come solo un viaggio può fare, di nuova energia, di amore e forza. Perché abbiamo ancora bisogno delle sue parole, della sua forza.

Roberto Saviano ci ha dato una lezione, esemplare, di cui tutti dovremmo seguire il richiamo.
Nel momento in cui parte, lascia l'Italia, è giusto che siano tanti, molti, ad occupare il terreno da lui spianato. Perché ha incominciato un percorso, un cambiamento e tocca a tutti continuare, fino in fondo. Un libro e l'interesse che ha suscitato ha potuto ciò, l'impegno di tutti può ancora di più. Una vita onesta e nel rispetto delle regole, non basta più, o meglio non è mai bastata, a chi si ritiene protetto e in pace grazie a ciò, gli si ricorda che poter far qualcosa qui equivale a dover fare qualcosa. Più impegno, più partecipazione, più criticità, più coscienza. Non nascondersi dietro il paravento dell'atto eroico impossibile, ma possiamo tutti fare la nostra parte. Nel caffè al bar, nel dibattito in classe, nella cena in famiglia davanti al notiziario, nell' uscita con gli amici, al posto di lavoro, nella denuncia di un sopruso, nella partecipazione ad un appalto, nello scrivere un articolo, nella scelta del candidato, nella scelta del business, nel comprare, nella raccolta differenziata, nella scelta alla felicità, si può sempre prendere una posizione, c'è sempre una posizione.

La scelta di non zittirsi, la parola che a lui vuole essere taciuta, può essere presa da noi, è ora di prendere il microfono che lui sta passando. E' ora di tenersi pronti perché per tutti verrà il momento, il momento di esplicitare e concretizzare la propria posizione, il momento di scegliere, per chi parte, chi torna, e chi è rimasto. Verrà il momento per tutti di fare la propria parte, di parlare, di alzare lo sguardo, e già se non l' aspettassimo, ma quel momento lo cercassimo noi a viso aperto, sarebbe un prendere la parola.

giovedì 9 ottobre 2008

La diaspora degli innocenti



Andrea è un percorso inverso. Nasce, cresce e studia a Caserta per lasciarla sull'entusiasmo dei 18 anni, direzione Bologna. Studia, sperimenta, viaggia, va in Normandia, a Rouen, per un anno. Insomma cresce. Ma sempre proiettato all'esterno, al nuovo, al diverso. Affascinato da nuovi mondi, situazioni improbabili e imprevedibili, inizia a pensare. A ricercare il senso dei suoi percorsi. Prossimo alla fine di un ciclo di vita, di studi, inizia a porsi domande reali sul dopo, sull'avvenire.

Si chiede come valorizzare i percorsi da lui avviati, le cose da lui apprese, come arricchire ulteriormente la sua persona, forse andando più lontano? Per quale meta? Quale paese? Domande che sembrano obbligate a cui si fatica a dar risposta. Ma come spesso accade quando la chiarezza arranca la colpa è delle domande. Domande scontate, normali, interrogativi condivisi, socializzati, ma forse sbagliati. Perché nella nostra italiana generazione è diventato scontato partire, emigrare, cercare il dove si sta meglio, cercare l' America. Con invidia a chi sia già partito, con stupore o commiserazione a chi avendone la possibilità ancora non sia fuggito.

Un modo di vedere le cose tipico di una generazione abituata a cercare la realizzazione solamente altrove, o per mano altrui, evoluzione mentale del cittadino parassitario, evoluzione ulteriore dell'attesa perenne delle divina provvidenza. Una vita, un atteggiamento di attesa, non da speranze disilluse, ma da illusi in cerca di speranza.


Andrea ha seguito un percorso inverso, tra lo stupore di molti, e l'indifferenza di tanti, Andrea ha deciso di tornare per vedere e raccontare. Per rivivere una terra e una città che sente come sua, ma che adesso avrà la possibilità di conoscere, interpretare e confrontare. Partire per poi tornare, riprendersi con le parole e con i denti quello che tutti volevano da un'altra parte. Lascia Bologna e designa Napoli, come tappa successiva del suo percorso, nessun regresso, nessun fallimento, ma una maturità. La maturità di uno sguardo sulle cose, che chi lo conosce poco può scambiare per ingenuità, ma è consapevolezza della semplicità della vita, assenza di paura ingiustificata e passione sincera. La maturità di prendere una decisione e marcare una posizione, scegliere, marcare e scrivere, e allora che parola sia.





La diaspora degli innocenti



È un triste e risaputo sentimento
I cam
pi soffici e verdi
Sono ricordi quelli che rubo
Ma tu sei innocente quando sogni
Quando sogni
Sei innocente quando sogni”

Tom Waits


La diaspora degli innocenti

di
Andrea Bottalico

Parte prima
L’ho vista con i miei occhi. Sarà stata una delle solite notti d’estate, o forse autunno, non ricordo. Sull’asfalto però non c’erano foglie sparse. Avevano lasciato un lenzuolo bianco macchiato di chiazze rossastre, la segatura. Io camminavo come in un labirinto, sembrava tutto stranamente vero.. tanti uomini, donne anziane e bambini in fila ad aspettare, e l’attesa sembrava eterna. Erano, come dire, in fuga, ma restavano fermi immobili. Carmine era proprio lì davanti a me, seduto sul muretto, con il viso nascosto tra le mani e la voce simile a quella di un folle.. «Bisogna perdere l’equilibrio» diceva impaurito: «L’equilibrio l’equilibrio l’ equilibrio!» Poi si allontanava nel buio, dandomi le spalle. La sua voce svaniva a poco a poco… Era troppo tardi. Raffaele già era sparito.. Un serpentone di uomini umili e stanchi s’allontanava lentamente dalla memoria, si disperdevano come schegge di una supernova appena esplosa. Costretti, loro avrebbero preferito restare.

Sono sogni: gli unici momenti in cui sono convinto di essere innocente. Poi per il resto del tempo non ci sono scuse, non posso trovare giustificazioni. La realtà quotidiana mi trascina a peso morto nelle piazze assolate, a piedi oppure in bicicletta per i paesini limitrofi agonizzanti, ad ascoltare i vecchi seduti alle panchine: devo bruciare tutto il disprezzo accumulato, smaltire gli sguardi arroganti che osservano tutto di tutti, smaniosi di mostrarsi e di mostrare, ma più mi guardo intorno, peggio è.
«…Da questo posto marcio se ne stanno andando via in punta di piedi» mi dicevano degli uomini rassegnati, il giorno dopo. E Gennarino più di ogni altro, lui non riusciva a trovare pace. Se ne stava lì fuori a sfogliare le pagine del giornale locale per cercare la notizia dell’ennesima tragedia. Non ci voleva credere: Raffaele? Impossibile! Poi attaccava con le sue invettive a ruota libera, senza risparmiare nessuno:
«Lo vedi Andrè.Nessuno vuole restare in questo posto fatto di caserme banche punti SNAI e centri commerciali. Nessuno vuole vedere i propri figli seduti in una sala d’attesa di un reparto oncologico. Sembrano lontane anni miglia le immagini delle campagne appestate, degli incendi, dei cittadini disperati..ma quelli che scappano via da qui non lo dimenticheranno mai. Mettitelo bene in testa!..» Gennarino percepiva istintivamente ogni mutamento di clima, e dall’alto dei suoi settant’anni passati ad imprecare Cristo lo ripeteva ad alta voce, dinanzi agli sguardi indifferenti che lo credevano ubriaco: «Maledetti fottuti! Vili! Voi ed i vostri servi!.. Non fanno altro che aprire nuovi centri commerciali, questi cani!. Ma quale emergenza rifiuti!..qua si ricicla più della Svizzera!» (si riferiva al denaro sporco..)

«..L’ ho vista coi miei occhi, ti dico. E ancora continuo a vederla. Intorno a me c’è gente che fugge di notte, un popolo di fuggiaschi, Andrè. Loro non ci stanno. Hanno sputato in faccia alla realtà e gettato via ogni singola speranza di riscatto. Dove sono finiti tutti?! Eh? Dove diavolo sono finiti?!» Una domanda che mi ripeto la notte ed il giorno, nel deserto pomeridiano tra le strade ai margini della città. «Solo in pochi restano, e sono considerati come sconfitti. E se vai via per poi ritornare allora sei un fallito!.»
Raffaele. L’unico innocente. O forse uno dei tanti. In tutta Italia dal duemilasette ad oggi ne sono morti quasi millecinquecento, tra quelli dichiarati. Perché se consideri il popolo dei lavoratori a nero le vittime ne saranno molte di più. Raffaele era troppo giovane. Lui ha pagato il prezzo più alto per avere scelto. Proprio lui.. «Possibile che non abbia mai provato ad andarsene via in tutti i modi?!» Forse stava progettando il futuro altrove, il più lontano possibile. Abitava insieme alla madre e ai quattro fratelli nelle palazzine della centosessantasette.

Iniziò a lavorare con un mastro elettricista.
«Lo sai cosa significa questo, vero? Aveva i pali sotto casa e la base dei puffi a trecento metri, dove spacciano di tutto». Nonostante ciò faceva l’elettricista e nel tempo libero giocava a calcio. Era troppo forte. Lui era il guaglione, aiutava ed imparava in fretta il mestiere, sveglio com’era! A diciassette anni, chissà quanti sogni aspettavano d’essere esauditi.
«Per prima cosa devi stare attento a non prendere la corrente.. Se impari il mestiere guadagni, e per mezza giornata di fatica prendi cinquanta euro» mi diceva con gli occhi illuminati. Vallo a capire se era vero..

Quella mattina a Casalnuovo faceva un caldo atroce. Raffaele andò a montare un condizionatore d’aria in un appartamento al quarto piano insieme al mastro elettricista. Sale sulla scaletta, si appoggia alla ringhiera, inizia ad avvitare, posiziona il condizionatore, spinge la miccia del trapano nel muro, esce della polvere biancastra che sporca il pavimento del balcone. Le gocce di sudore gli cadono dalla fronte. Poi uno sguardo nel baratro, un altro ancora. Un brusco respiro al contrario. Raffaele si sente attratto come una calamita dal vuoto, un movimento azzardato e perde l’equilibrio. Precipita. Un volo di quindici metri. Raffaele prima di morire ha provato la sensazione di volare.
Sul selciato una macchia di sangue, poco dopo la segatura ed un lenzuolo bianco stavano lì a vegliare sull’ennesima vita morta ammazzata dal lavoro.. intorno al corpo tanti uomini, donne anziane e bambini in fila ad aspettare, ma l’attesa sembrava eterna…

Carmine quella notte me lo sussurrava nell’orecchio, come chi confida ad un amico stretto un’infame verità.. «Bisogna perdere l’equilibrio, cazzo!» Miriadi di spilli cadevano su un pavimento di vetro. Il tonfo fastidioso si amplificava nell’attimo dell’urto. Erano voci infinite ed esauste, inondate da altre voci che sbuffavano sulle sponde dei muri di cemento. Il corpo implorava pietà ma non potevi opporti al suo diniego, come il rumore delle unghie affilate che graffiano la parete bianca appena intonacata.. un brivido attraversava tutta la schiena. Incontrastato. Ma tu sei innocente quando sogni.. Io lo capii soltanto dopo quella notte. Alla fine a cosa serve? A cosa serve pensare? Pensare che fra un paio di mesi Raffaele avrebbe compiuto diciotto anni. Pensare che se magari avesse avuto l’attrezzatura di sicurezza, che ne so un caschetto, Raffaele adesso sarebbe ancora vivo. Riflettere ancora su una triste verità, e cioè che ora tutti nel suo quartiere saranno convinti che se vai a fare un mestiere onesto sei un perdente, che era meglio se Raffaele avesse scelto di iniziare da capo la sua vita altrove, come se in Lombardia o in Veneto o in Emilia Romagna non ci fossero stragi di lavoratori. Che non conviene rischiare la vita per cento euro la settimana quando avresti potuto guadagnarne dieci volte in più restando fermo all’angolo della strada con gli occhi spalancati.
Bisogna ricordarlo. A nome di tutte le altre vite stroncate. Innocenti dispersi tra i notiziari. Come miriadi di spilli che cadono su un pavimento di vetro.

Raffaele Chianese, diciassette anni, elettricista, morto il 13 luglio 2008 a Casalnuovo (NA)
Se esiste un Dio, non si trova nei paraggi” dice una scritta anonima sopra un muro di periferia. Qualcuno ha aggiunto sotto: “Se n’è fuggito pure lui!!





Pubblicato su Nazione Indiana il 3 settembre 2008.

lunedì 6 ottobre 2008

Io sono Andrea


Tutto, ma da questa parte.