di Salvatore De Rosa
Scrivere comporta uno sforzo. Quando la scrittura non è sfogo di un ego frustrato, quando si distanzia dalla confessione solipsistica e tenta invece di farsi interprete di un segmento di mondo, di una condizione umana, di un meccanismo sociale, allora essa è fatica e sacrificio. Questa scrittura, che non riempie pagine di un flusso di coscienza straripante ma stilla ogni frase dal lavoro di ricerca continuativo e sagace, è come un bomba ad alto potenziale, un’esplosione che coinvolge e abbraccia tutto nel suo dilagare e il cui detonatore è un sentimento per i più fuori moda: l’impegno civile. Una scrittura partigiana, che non fa prigionieri, che tradisce famiglia, affetti, appartenenza, maestri e protettori pur di arrivare là dove la cocciuta ossessione della verità conduce: a un disegno della realtà, a una mappa delle responsabilità, a un ordine nella concatenazione di cause ed effetti che producono una condizione storica, alla forma definita che fugacemente la vita assume nello svolgersi caotico degli eventi. Nessun gioco retorico, nessuna concessione al politically correct, solo fatti, racconto e la forza del messaggio affidata alla sua forma estetica.
Roberto Saviano sta sperimentando sulla sua pelle l’effetto devastante che ha sull’esistenza il prendersi carico della responsabilità di tale scrittura. La vita sotto scorta, l’allontanamento forzato dalla propria terra e ora dall'Italia, la solitudine imperante in stanze sempre diverse, l’assenza di normalità. Eppure lui è un ragazzo normale. Non un maestro di vita, né tantomeno un profeta, è “solo” un ragazzo nato in Campania stufo di computare i morti ammazzati, incapace di pregare favori per una raccomandazione, esasperato nel vedere ville sontuose di boss e deserti urbani le une accanto agli altri e del tutto alieno alla capacità di essere indifferente, di andare avanti fottendosene di ciò che ha intorno. E ora che ha dovuto rinunciare a tutto, persino all’amore, oltre alle concrete minacce dei boss deve difendersi da chi lo accusa di aver scritto per convenienza, per soldi. Ma i soldi non restituiscono l’allegria quotidiana di un giorno di sole liberi dalle preoccupazioni, i soldi non possono comprare la gioia di andare a bussare l’amico di sempre per una partita a pallone, i soldi non ti ridanno gli occhi profondi della tua ragazza il giorno che l’hai portata al mare dopo aver vagato senza meta in sella alla vespa.
Gomorra, il suo libro, ci inchioda alla nostra vita, ci sussurra “ti riguarda”, ci mostra gli anditi nascosti dello sfacelo di cui ci lamentiamo ma che non abbiamo mai voluto approfondire e indica i responsabili senza possibilità di fraintendimenti. Non è vero che non c’è la bellezza delle nostre terre tra le sue parole, anzi, la ricerca della bellezza è la linfa vitale di cui si nutrono, il senso della perdita di quella bellezza è l’impalcatura dell’inferno che ci mostra. Dopo aver letto la tragica e coraggiosa storia di don Peppino Diana, trucidato da sicari impauriti di dover ammazzare un prete, chi potrà accusarlo di dimenticare le forze contrastanti al potere dei clan, di non tenere in considerazione le “persone oneste” che pur abitano la mia terra disastrata? La verità mostrata nuda s’insinua nelle nostre giornate come una spina sotto al piede, e ad ogni passo ci chiede conto della nostra inazione, della nostra acquiescenza. Per questo è fastidiosa, per questo c’è chi la condanna ricercando cause e pretesti per depotenziarla, come se urlasse nelle sue critiche “bastardo! Perché mi hai aperto gli occhi?!”.
“non si tratta di stabilire colpe, ma di smetterla di accettare e subire sempre, smettere di pensare che almeno c’è ordine, che almeno c’è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada. Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell’unico mondo possibile sicuramente” (da "Lettera alla mia terra")
In questo scritto, ultimo ad essere pubblicato prima delle temibili rivelazioni del pentito, trasudano l’indignazione e l’amarezza nei confronti di chi, pago di sé stesso, sorseggia un caffè in un bar qualsiasi da Mondragone ad Acerra convinto che vada tutto bene, che non ci sia nessuna guerra nel perimetro che calpesta, che in fondo lui non c’entra niente con i clan. Non è così. Siamo tutti coinvolti. Per quanto possa essere destabilizzante e terribile ogni nostro gesto in queste terre è una concessione da chi detiene il potere. Dal commercio alla sanità, dalle infrastrutture ai rifiuti, le strade, il cibo, il lavoro, la salute, il divertimento, tutto è legato al filo mosso da uomini bestiali vestiti elegantemente, pochi e feroci individui che sotto la minaccia delle armi o con la convenienza che possono offrire i padroni del territorio, controllano, gestiscono, amministrano e lucrano sulla pelle e sulle anime di chiunque voglia semplicemente esistere. Nessuno è libero, nessuno può sentirsi escluso; resta la fuga o l’adattamento forzato che si risolve in connivenza, anche se non si è mai impugnata una pistola. Il dolore di Roberto, che esplode nell’incalzare della “Lettera”, si concentra nell’invocare una terza via, una possibilità che restituisca dignità agli uomini e alla loro terra: la resistenza, l’indignazione, la condanna. Il fare comunità e discuterne, scegliendo consapevolmente la parte in cui si vuole lottare. Perché in guerra nessuno è neutrale, e chi non decide viene soverchiato dal più forte e deve accettare le sue condizioni. Noi siamo in guerra perché ci hanno usurpato della capacità di decidere il nostro sviluppo, il nostro futuro. Siamo in guerra perché
“se i vostri figli dovessero nascere malformati o ammalarsi, se un’altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finirebbero nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori della stessa banca saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo forse vi renderete conto che non c’è riparo, che non esiste un ambito protetto, e che l’atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato vi ha appestato l’anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita”.
Roberto ci incita, ci urla di non abituarci ad accettare tutto questo, di non imputare la nostra assenza sul campo alla paura, poiché una vita da schiavi è peggio dei rischi di una reazione. Paura di che poi? Noi che sottostiamo alla legge dei clan siamo molti di più, abbiamo da unire le nostre forze per sognare un futuro possibile libero finalmente da un manipolo di affaristi armati.
Con la sua scrittura Roberto ci mostra noi stessi sotto una luce che ci ostiniamo a non considerare o che ci rifiutiamo di trasformare in azione, ma è la luce abbagliante della verità.
2 commenti:
La più bella risposta al mio post precedente.O meglio più che pronta risposta, medesima e contemporanea reazione a ciò che succede.
Convinzione che non si è soli a reagire.
Bravo figlio mio.
Sono commosso e arrabbiato di una rabbia fredda e lucida.
Che questo freddo che ci blocca tutti si trasformi in un fuoco che rigeneri la nostra terra.
Che la nostra lucidità ci dia le idee e la forza per ridare linfa vitale al nostro territorio.
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