venerdì 27 febbraio 2009

Tornare a Sud





di Salvatore De Rosa




Cosa significa appartenere? Che senso ha, nel nostro tempo, questa parola diretta ed enigmatica, seducente e ambigua? Per me, quando avevo diciotto anni e mi congedavo non senza letizia dalla casa familiare, dagli affetti amicali, dalle strade e dai campi del mio paese, non voleva dire niente. O meglio, aveva un senso ristretto, disseccato. Consideravo di appartenere solo a me stesso, e che il mio Io fosse l’unico ente per cui valesse la pena di spremere energie e forze, l’unico a meritare desideri per cui lottare, immaginando un futuro in cui la piena appartenenza sarebbe concisa con la realizzazione dei miei sogni. Era la tensione del giovane assaggiatore della vita, che corre in fretta verso un confine spinto sempre più in là, con la celata speranza che la fuga veloce possa spazzare via controvento le scaglie del suo essere che non ama. Fu una partenza desiderata e conquistata; lì verso l’ignoto che si disegna nei sogni ad occhi aperti immaginando la vastità e varietà del mondo. Certo, la famiglia non la dimenticai. Ma anche per essa era riservato solo un piccolo spazio benché profondo; troppo bruciava la certezza di essere altro, altro da tutto ciò che avevo fino a quel momento conosciuto.


Trasferitomi in una terra lontana che era sempre Italia, una terra brulicante di “emigranti” meridionali come me, su al nord, sono disceso e risalito innumerevoli volte dentro me stesso. Alcune realizzazioni sono arrivate, ma nessuna bastava a colmare il senso di appartenenza. Anzi, quello che quando partii era poco più di un foro senza luce, divenne un abisso. Il contatto con la differenza aveva aumentato lo spettro dei pensieri sul mondo, con innumerevoli esperienze che espandevano il disegno della vita umana possibile, rendendomi consapevole che il dialogo con la differenza e l’alterità sono le condizioni della crescita della consapevolezza e della conoscenza. Ma io chi ero? Ricercavo con ostinazione dentro le tracce dei passi compiuti un senso, un bandolo, che potesse chiarirmi il mio posto, la mia collocazione nell’arazzo mai finito delle azioni umane. Senza successo. Guardavo troppo vicino, o troppo lontano. Mi scoprivo estraneo nei nei nuovi luoghi, straniero quando tornavo a quelli noti. Le conquiste, i successi, i traguardi, erano polvere che non sapeva dove depositarsi per diventare sedimento, costruzione, storia. Ciò che mancava, era ancora un’appartenenza.


Confuso, nei ritorni temporanei a casa, mi ritrovavo a riflettere alacremente. Ero convinto che esistesse un nesso tra il mio passato recondito, i viaggi in cerca di me, e ciò che poco a poco stavo diventando. Come se la memoria che dava forma alla mia identità fosse saldamente ancorata ad un fondo che percepivo senza afferrare, un fondamento che cambiava con me senza mai cambiare del tutto. Era un nocciolo duro precedente ai viaggi, forse addirittura precedente alla mia nascita che però intratteneva con me un dialogo temporale e materiale. Stanco di riflettere, sono uscito per le strade del mio paese. Girovagavo senza meta, a piedi, in bici, in auto, e ciò che avevo intorno pareva dischiudersi ai miei occhi per la prima volta. Strade mai intraprese si rivelavano lunghe e avventurose. Oltre i confini in cui avevo rinchiuso la mia prima giovinezza, trovai vasti territori che mi parlavano di una storia millenaria. Esplorai i campi coltivati che circondano il nucleo di case e piazze come una corona su una testa troppo piccola. In un giro solitario mi capitò di fermarmi in un frutteto di cachi, i “lignasanti” in lingua locale come mi disse un contadino. Parlava solo un dialetto ruvido, con vocali aperte e consonanti come aculei conficcati nelle parole. Ma io lo capivo ed egli sentiva con me una vicinanza che andava oltre la superficie di diversità così palese tra noi. Entrambi, io e il contadino, eravamo lì a discutere di terreni e agricoltura come prima di noi avevano fatto nel corso dei secoli gli abitanti delle medesime terre, domandandosi del proprio destino mentre adattavano le tecniche ai bisogni, mentre scavando solchi nei campi disegnavano il loro stesso volto. Poi il contadino prese un’aria triste, pensosa, non parlava più. Alle mie incalzanti domande rispose solo che la sua tristezza era quella della fine del mondo. Attorno a noi, quelle terre portatrici di vita e di senso, stavano morendo. Oltre all’incuria e all’indifferenza dei “cittadini” sopraggiungeva il veleno degli scaricatori abusivi, affaristi armati senza un identità che non coincida col denaro. E pure lo Stato ci si metteva, condannando la vita agricola ai suoi ultimi sussulti, soffocando la vocazione antica di una terra fertile. Bisognava lottare. Mi resi conto che altri come me sentivano la violenza perpetrata sul proprio paese come una violenza su loro stessi, e ci organizzammo. Fu l’adesione a qualcosa che andava oltre la nostra individualità, la presa di coscienza di un valore umano ulteriore che ci accomunava, stracciando la solitudine in cui ci eravamo reclusi. Come dice Albert Camus “mi rivolto, dunque siamo”, così la nostra collettività scoprimmo che c’era sempre stata ma emergeva nel momento in cui iniziavamo a difenderla.


È stato questo l’inizio di un percorso a ritroso. Alle lotte aggiunsi lo studio, il territorio assumeva sempre più una fisionomia, si rivelava ammantato di storia che altri prima di me avevano dissepolto ed altri ancora prima avevano costruito, in un dialogo fatto di edifici, strade poderali, libri, utensili, canzoni, racconti, verdure, rivolte, signori e schiavi, culti pagani e cristiani. E alla fine della nostra storia c’ero io con i miei contemporanei. Nati in uno spazio che ci ha forgiati, che è lì ma che bisogna conquistare culturalmente, poiché troppo arrugginiti sono quei meccanismi che tradizionalmente hanno trasmesso la nostra memoria collettiva, consegnandoci un’identità con le radici ben piantate in una terra.


Appartenere, l’ho capito, è un atto d’amore. E, in quanto amore, è un consegnarsi in ostaggio al destino, come osservò Lucano duemila anni fa. Un destino oscuro nel suo futuro, a meno che non si stabilisca una continuità col passato che sgorga nel presente, verso un avvenire di cui ci si fa carico. La vera libertà, secondo Bergson, è proprio la piena consapevolezza di ciò che è stato prima, l’unico modo per dare all’azione un senso non accidentale, non estraneo all’esistenza: “l’individuo più libero ha un passato integro ed è in grado di utilizzare la massima quantità di ricordi per rispondere alle sfide del presente”. Lo stesso vale per una comunità. Anzi, solo nell’alveo di una storia comune l’individuo assume consistenza, dà alla sua narrazione di sé il tessuto per ricamare la propria identità. L’appartenenza è quindi comprensione dei nessi che ci coinvolgono in una storia che va oltre noi, è la scoperta di un amore che si è sempre nutrito ma che solo cercandolo si rivela. Ha una dimensione attiva, persino di sacrificio, però compiuto senza perdita in quanto conduce ad un arricchimento, a non sentirsi più soli. Abbatte tutti i perimetri interiori, compenetrandoti col destino di genti e terre non più estranee. Tale scoperta rende chiaro che se non assumerai la responsabilità della tua terra nessuno potrà farlo al posto tuo. Chi viene da lontano, per quanto ben disposto, non potrà conoscere tanto bene la storia e lo spazio del tuo paese come invece puoi fare tu. Egli sarà sempre di passaggio, avrà comunque un’attenzione relativa, figlia magari di una solidarietà universale, ma che non conterrà l’affetto sommerso, recondito, naturale, che si prova camminando nella terra chiamata “casa”.


Amore e responsabilità. Una volta riscoperti dentro di noi allargano a dismisura il nostro sguardo e mostrano lo spazio e la direzione dell’azione. Il mio paese non ha mai avuto tanti angoli nuovi, tante storie depositate negli individui, tante strade ancora da esplorare. E da qui si diramano altre storie, si susseguono altre terre, c’è l’intera Campania che giace e vuole rivivere, e poi oltre, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia, tutta una geografia dell’anima meridionale che anela la propria coscienza, la propria identità. Allora l’appartenenza permette di dare dignità alla vita, e attraverso di essa dà dignità alla terra. Affinché ciò che amiamo si conformi all’ideale di quel che vogliamo diventare. Finalmente consapevoli, finalmente non più soli, con tutta la tragica felicità di avere un senso.


mercoledì 11 febbraio 2009

Io sono Serba


Oggi è il compleanno di Maya, e lei sembra essere molto contenta di questo. Non so come festeggino a Belgrado, con chi festeggi, ma conoscendo l'energia che è capace di sprigionare ed il talento nel danzare, la festa sarà sicuramente al suo livello. Maya è serba, di Belgrado, e oggi fa 24 anni. E' tornata a casa prendendosi una pausa dal suo viaggiare e dalla sua voglia di mondo. E' tornata a casa, grazie ad un'allettante offerta di lavoro. E' tornata perché da poco più di un mese lavora presso l'ambasciata austriaca e pensa di costruire un po' di futuro a casa sua.

Non l'hanno scelta a caso, perché Maya parla il tedesco correntemente, è abituata ad un ambiente internazionale, e potrà sfruttare le sue capacità comunicative e l'esperienza fatta in Germania. Quello che desiderava già da quando stava a Monaco. Anche se al tempo diceva di voler fare l'hostess per gli Emirates, un modo per viaggiare, guadagnare e sfruttare la sua conoscenza delle lingue. Tuttavia al di là del lavoro che poi ha scelto e di quelli che ancora cambierà, il principio di fondo rimane lo stesso, le cose da amare e le cose da fare mantengono sempre la stessa coerenza.

Anche se parlando con lei, scopri che di coerenza tra le cose fatte, Maya non sembra averne, l'unico filo comune sembra essere l' imprevedibilità, alimentata dalla sua energia, dalla certezza che qualcosa di nuovo sta per fare. Sempre in movimento e piena di idee da sviluppare, e di cui una buona parte ha sviluppato.

Nella foto di presentazione del suo profilo su HC, Maya appare come una pop-star degli anni '90. L'immagine di un mondo che forse l'ha sempre attirata per il forte ottimismo e la spensieratezza che vuole trasmettere. Non a caso il nick che si è scelto è Mayathestar, ma non è solo per il fatto che ama e ha fatto del teatro, oltre che una scuola di canto. E' perché lei vuole essere una star di vita, un'artista della vita. Essere interprete unica e particolare di un certo modo di vivere, e un po' sicuramente ci è riuscita. Come tutti coloro che riescono a differenziarsi dalla massa e dalle scelte più ovvie.

L'immagine a cui la riavvicino io, invece, è quella della selvaggia, anarchica valchiria. Una figlia di Odino che vola da una vita all'altra per prendere e per dare. Una divinità nordica che viene per dare amore e prendere energia. Dove al posto di un cavallo alato, ha uno zaino logorato, dove al posto di prendere i corpi dei guerrieri morti in guerra, va alla ricerca di ragazzi a cui ridare nuova forza.
Ed in effetti Maya un po' valchiria ci è. Nel senso eroico del creare, nel gesto forte di scegliere. Maya ha scelto di partire per l'Europa tutta sola, senza un progetto preciso, ma con la voglia di vivere, di certo non sola. Reagendo ai casi della vita nel modo più semplice e spontaneo. Un po' come in un film di Kusturica, "La vita è un miracolo", dove un uomo bosniaco cristiano ed uno donna musulmana, sotto le bombe che cadono sempre più vicino, reagiscono alla paura facendo l'amore.

Maya nel viaggiare, ha cercato emozioni, l'imprevedibilità e la genuinità dell'amore. Non che non si potesse trovare a casa, ma forse come reazione ai nazionalismi e alle tensioni sempre presenti nel paese, voleva cercare, vivere ed emozionarsi, ma da un'altra parte. La sua è una generazione nata e cresciuta durante la guerra. Una guerra combattuta dal suo paese, ma mai nel proprio territorio. La Serbia, ha combattuto in Croazia, in Bosnia ed in Kossovo, ma è stato un paese che non ha mai vissuto la tragedia della guerra a casa propria. Come ha detto Natasa Kandiç Miloseviç ha affermato molto spesso nelle sue dichiarazioni che la Serbia non è mai stata in guerra. Ed effettivamente, in Serbia, non ci sono luoghi di uccisioni di cittadini serbi. Ci sono dei luoghi in cui hanno perso la vita delle persone a causa dei bombardamenti NATO, ma non c’è nessun luogo in cui le forze croate, o le forze bosniache o le forze degli albanesi del Kossovo abbiano ucciso dei cittadini nei territori serbi, escluso il Kossovo.

Per lo stesso motivo nonostante durante le guerre jugoslave siano state uccise circa 130.000 persone, e altre 20.000 siano scomparse, e sebbene ovunque siano stati eretti monumenti, 3000 solo in Kosovo, molti in Croazia e in Bosnia, in Serbia è come se la guerra non ci fosse stata. In Serbia non si trovano memoriali. Come se per un periodo, tutti gli anni'90, il processo della memoria si fosse fermato.
Le organizzazioni per i diritti umani in Serbia ripetono incessantemente non solo al governo serbo, ma anche ad altri governi, che per il futuro democratico del paese, per le generazioni future, è decisamente importante che esista in Serbia un memoriale che funga da monito, che sia un luogo di memoria.

Nel frattempo le nuove generazioni, fortunatamente, crescono con occhi nuovi. I vuoti di memoria talvolta fanno anche bene per attenuare i forti nazionalismi che ancora permangono. Ma solo tra i vecchi ed i padri, che si scontrano con il sentimento dei figli di non appartenere più a nessuna bandiera. Un sano scontro generazionale, in cui i giovani pensano a viaggiare, ad incontrarsi e a fare l'amore. Come hanno fatto i loro padri, certo, ma con una voglia di condividere in più.

venerdì 6 febbraio 2009

Memoria viva

La guerra è forse il più grande fallimento della memoria. A scuola ero convinto che il ripetersi periodico di guerre fosse sempre un problema di memoria, di scarsa memoria.
Pensavo che ognuno si dimenticasse della guerra precedente, vissuta, nel libro di storia, solo qualche anno prima. Forse perché troppo tempo era passato dall'ultima guerra, il tempo di una generazione, quanto basta per dimenticare e credere che tutto sarebbe stato diverso, che tutto potesse essere cambiato, che le ragioni queste volte erano giuste, che allora non avevano compreso, mentre adesso tutto era chiaro.

Poi, ho iniziato a pensare che tutto è guerra. Nelle strade, nelle case, nelle idee, nella natura. Una caratteristica della vita e della storia. Guerra inevitabile ed infinita. Guerra necessaria, conflitto evolutivo, conseguenze nefaste di cicli storici, un semplice disequilibrio di poteri, uno squilibrio di forze che si risolveva con la forza, una lotta per affermare un nuovo equilibrio, una pax romana, che viene raggiunta solo perché sono stati annientati gli avversari. Hegel era arrivato ad affermare che "senza le guerre la storia registra solo pagine bianche", implicitamente supponendo che l'unica storia da raccontare fosse la storia dei vincitori.

Infine ho capito che ci sono delle ragioni, politiche. Come ha scritto Carl von Clausewits nel suo celeberrimo "Della Guerra", "La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi", non è un atto isolato, ma uno strumento, e proseguimento, di un progetto politico.
Poi ho arricchito la mia interpretazione del fenomeno con ragioni storiche, religiose, economiche, con ragionamenti più complessi. Sebbene sia un eufemismo dire che ci sono delle ragioni, non ci sono mai delle giustificazioni, tantomeno legittimazioni, solo interessi politici.
Ironico che nel suo tentativo di far scomparire la guerra, lo Statuto dell' ONU abbia deciso di condannare gli stati aggressori e consentire agli aggrediti di difendersi con immediatezza. Il risultato è stato che nessuno stato si è più dichiarato aggressore, ma sono stati trovati infiniti appigli per dichiararsi aggrediti. Quindi ad essere scomparse non sono state le guerre, ma solo le dichiarazioni di guerra.

Tuttavia alla fine dei miei valzer di pensiero sono tornato alla mia intuizione iniziale, sebbene in una formulazione più complessa. Ovvero che il ripetersi di determinati conflitti è stato dovuto al fatto che i ricordi e le memorie di quelli precedenti non avevano trovato adeguata cristallizzazione e proliferazione. Non erano andati a creare delle istituzioni, delle leggi, dei valori morali e culturali per far sì che poi non si ripetessero più. Come ha scritto Primo Levi "Per far sì che determinate pagine non si debbano più scrivere". Perché una verità, un concetto, un'esperienza, un'idea, non basta raggiungerla o pronunciarla una sola volta per mantenerla. Essa può volare via, essere dimenticata, o peggio, essere intenzionalmente cambiata. Bisogna mantenerla viva, diffonderla e proteggerla, far sì che entri a far parte di quei fattori caratterizzanti una determinata civiltà. E con il passare del tempo è necessario riproporla, riaffermarla con parole e linguaggi nuovi, adattandosi ai tempi che cambiano, ad i valori che sono cambiati a latere, ma senza svuotarla di significato e dei suoi principi fondamentali. Il progresso non è scontato, non è un processo che al massimo si può arrestare, mantenendo automaticamente tutto quello che è stato raggiunto. Si deteriora, si dimentica, si cambia, ci si confonde, o si pensa che per una volta si possa fare un'eccezione.

In Europa siamo dovuti arrivare all'apice della distruzione per ricostruire una civiltà sulle ceneri di quella passata, ma memori degli errori commessi, con gli anticorpi sufficienti per non tornare più indietro. L'Europa di oggi, il suo progetto originario, nasce direttamente dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, nasce come meccanismo atto ad unire indelebilmente i paesi per far sì che la guerra tra loro diventi cosa impossibile.

Quando diventa possibile o probabile, è già un fallimento. La guerra è un fallimento. Un fallimento politico, un fallimento istituzionale, un fallimento sociale, un fallimento umano. La pace non è mai conquistata una volta per tutte, è fragile, sfumata, talvolta sottovalutata o data per scontata. La pace è il fallimento di una presa lasciata per afferrare qualcos'altro.

Le guerre jugoslave sono state la prima guerra in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Dopo circa cinquant'anni, l'Europa occidentale si è risvegliata leggendo la parola guerra sui quotidiani, a due passi da casa. I Balcani hanno vissuto sanguinose guerre durante tutti gli anni '90, lasciando una presa ed un'idea a cui erano stati aggrappati per cinquant'anni, per un'altra, di indipendenza. Per un'autonomia culturale e politica da quello che era considerato un dominio serbo. Un esperimento di convivenza durato cinquant'anni grazie a Tito e all'idea del socialismo, un braciere di culture che ha bruciato per tutti gli anni '90. Le guerre balcaniche degli anni '90, hanno sancito il diritto di indipendenza e di autodeterminazione dei piccoli popoli. Ma anche visto tendenze fratricide e violente pulizie etniche. La Slovenia prima e la Croazia poi, per continuare con la guerra tra bosniaci. La guerra dei vicini di casa. Fino alla guerra in Kosovo e all'indipendenza del Montenegro.

Indipendenze che hanno lasciato la Serbia e il suo progetto politico sempre più solo. Fino ad eliminarlo. Il futuro è stato liberato, ma sono iniziati i conti con il passato.
Il lavoro delle memorie e delle coscienze che già avanza, libera i giovani da un passato che non gli appartiene verso un futuro che condivideranno.
Che noi condivideremo.