venerdì 6 febbraio 2009

Memoria viva

La guerra è forse il più grande fallimento della memoria. A scuola ero convinto che il ripetersi periodico di guerre fosse sempre un problema di memoria, di scarsa memoria.
Pensavo che ognuno si dimenticasse della guerra precedente, vissuta, nel libro di storia, solo qualche anno prima. Forse perché troppo tempo era passato dall'ultima guerra, il tempo di una generazione, quanto basta per dimenticare e credere che tutto sarebbe stato diverso, che tutto potesse essere cambiato, che le ragioni queste volte erano giuste, che allora non avevano compreso, mentre adesso tutto era chiaro.

Poi, ho iniziato a pensare che tutto è guerra. Nelle strade, nelle case, nelle idee, nella natura. Una caratteristica della vita e della storia. Guerra inevitabile ed infinita. Guerra necessaria, conflitto evolutivo, conseguenze nefaste di cicli storici, un semplice disequilibrio di poteri, uno squilibrio di forze che si risolveva con la forza, una lotta per affermare un nuovo equilibrio, una pax romana, che viene raggiunta solo perché sono stati annientati gli avversari. Hegel era arrivato ad affermare che "senza le guerre la storia registra solo pagine bianche", implicitamente supponendo che l'unica storia da raccontare fosse la storia dei vincitori.

Infine ho capito che ci sono delle ragioni, politiche. Come ha scritto Carl von Clausewits nel suo celeberrimo "Della Guerra", "La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi", non è un atto isolato, ma uno strumento, e proseguimento, di un progetto politico.
Poi ho arricchito la mia interpretazione del fenomeno con ragioni storiche, religiose, economiche, con ragionamenti più complessi. Sebbene sia un eufemismo dire che ci sono delle ragioni, non ci sono mai delle giustificazioni, tantomeno legittimazioni, solo interessi politici.
Ironico che nel suo tentativo di far scomparire la guerra, lo Statuto dell' ONU abbia deciso di condannare gli stati aggressori e consentire agli aggrediti di difendersi con immediatezza. Il risultato è stato che nessuno stato si è più dichiarato aggressore, ma sono stati trovati infiniti appigli per dichiararsi aggrediti. Quindi ad essere scomparse non sono state le guerre, ma solo le dichiarazioni di guerra.

Tuttavia alla fine dei miei valzer di pensiero sono tornato alla mia intuizione iniziale, sebbene in una formulazione più complessa. Ovvero che il ripetersi di determinati conflitti è stato dovuto al fatto che i ricordi e le memorie di quelli precedenti non avevano trovato adeguata cristallizzazione e proliferazione. Non erano andati a creare delle istituzioni, delle leggi, dei valori morali e culturali per far sì che poi non si ripetessero più. Come ha scritto Primo Levi "Per far sì che determinate pagine non si debbano più scrivere". Perché una verità, un concetto, un'esperienza, un'idea, non basta raggiungerla o pronunciarla una sola volta per mantenerla. Essa può volare via, essere dimenticata, o peggio, essere intenzionalmente cambiata. Bisogna mantenerla viva, diffonderla e proteggerla, far sì che entri a far parte di quei fattori caratterizzanti una determinata civiltà. E con il passare del tempo è necessario riproporla, riaffermarla con parole e linguaggi nuovi, adattandosi ai tempi che cambiano, ad i valori che sono cambiati a latere, ma senza svuotarla di significato e dei suoi principi fondamentali. Il progresso non è scontato, non è un processo che al massimo si può arrestare, mantenendo automaticamente tutto quello che è stato raggiunto. Si deteriora, si dimentica, si cambia, ci si confonde, o si pensa che per una volta si possa fare un'eccezione.

In Europa siamo dovuti arrivare all'apice della distruzione per ricostruire una civiltà sulle ceneri di quella passata, ma memori degli errori commessi, con gli anticorpi sufficienti per non tornare più indietro. L'Europa di oggi, il suo progetto originario, nasce direttamente dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, nasce come meccanismo atto ad unire indelebilmente i paesi per far sì che la guerra tra loro diventi cosa impossibile.

Quando diventa possibile o probabile, è già un fallimento. La guerra è un fallimento. Un fallimento politico, un fallimento istituzionale, un fallimento sociale, un fallimento umano. La pace non è mai conquistata una volta per tutte, è fragile, sfumata, talvolta sottovalutata o data per scontata. La pace è il fallimento di una presa lasciata per afferrare qualcos'altro.

Le guerre jugoslave sono state la prima guerra in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Dopo circa cinquant'anni, l'Europa occidentale si è risvegliata leggendo la parola guerra sui quotidiani, a due passi da casa. I Balcani hanno vissuto sanguinose guerre durante tutti gli anni '90, lasciando una presa ed un'idea a cui erano stati aggrappati per cinquant'anni, per un'altra, di indipendenza. Per un'autonomia culturale e politica da quello che era considerato un dominio serbo. Un esperimento di convivenza durato cinquant'anni grazie a Tito e all'idea del socialismo, un braciere di culture che ha bruciato per tutti gli anni '90. Le guerre balcaniche degli anni '90, hanno sancito il diritto di indipendenza e di autodeterminazione dei piccoli popoli. Ma anche visto tendenze fratricide e violente pulizie etniche. La Slovenia prima e la Croazia poi, per continuare con la guerra tra bosniaci. La guerra dei vicini di casa. Fino alla guerra in Kosovo e all'indipendenza del Montenegro.

Indipendenze che hanno lasciato la Serbia e il suo progetto politico sempre più solo. Fino ad eliminarlo. Il futuro è stato liberato, ma sono iniziati i conti con il passato.
Il lavoro delle memorie e delle coscienze che già avanza, libera i giovani da un passato che non gli appartiene verso un futuro che condivideranno.
Che noi condivideremo.

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