venerdì 30 maggio 2008

Io sono curdo



Il suo nome curdo, Baran, che vuol dire pioggia, è il nome di una lotta per la propria identità, un nome e una lingua vietati fino a cinque anni fa, l'idioma di un popolo che non ha stato, che non ha istituzioni, che ha conosciuto e vive immense repressioni, un popolo che la Turchia come l' Iran così come l'Iraq vorrebbero annullare, cancellare, dimenticare; un popolo che resiste alle repressioni con la forza e con la memoria, e allora si adempie al dovere di non dimenticare innanzitutto con il nome, la propria origine e la prima consapevolezza di , tramite il proprio nome, perché ti accompagna tutta la vita, perché entra nella mente di chi ti incontra, perché ricorda e fa ricordare.

Baran ha circa 26 anni, studia Business alla Galatasaray Universitesi, ed è un degno rappresentante di quei giovani che lottano per il proprio futuro, è curdo e non si rassegna al mondo così come gli è stato dato, ma cerca di adattarlo alla propria immaginazione.

Baran viene dalla città di Diyarbakır capitale curda dell'omonima provincia che si trova nel sud-est della Turchia. Cresce lì, nella città il cui nome originario curdo è Amed, sulle sponde del fiume Tigri. Viene da una famiglia ricca e dotta di professionisti, ingegneri, dottori, psicologi, i genitori danno grande importanza alla sua educazione e lo seguono costantemente nei suoi studi, cosa non solita per chi viene da quella regione.
Baran viene dal Kurdistan settentrionale, la parte settentrionale di quello stato che non esiste, il cui popolo non è riconosciuto dallo Stato turco, la cui lingua e la cui musica erano vietate fino a 5 anni fa. Baran ha coltivato la sua identità sotto continue pressioni esterne che tentavano di annullarla. Una infanzia non facile, in una città abituata ad ospitare i rifugiati della provincia, i cui villaggi venivano bruciati e sgomberati dalle rappresaglie dell'esercito turco. Una città che ha decuplicato i suoi abitanti, in poco più di 10 anni, dedita per la forza degli eventi a non avere barriere con i suoi vicini, ma che faceva muro intorno a per proteggere la propria esistenza. Un'identità che nonostante secoli di attacchi, secoli senza stato, senza istituzioni è ancora lì, viva, resiste e si fa sentire.

E allora per capire il dolore di una regione, il dolore di una nazione, talvolta è più semplice avvicinarsi alla storia di una famiglia, la famiglia di Baran.
Il padre è stato la figura che nel bene e nel male ne ha segnato le vicende. Nadir Birgol è un ingegnere e fino a dieci anni fa lavorava per l'azienda pubblica di gestione delle strade a Diarbakir, i cui vertici, come spesso accade nelle grandi aziende pubbliche sono di nomina politica, e con cui entra in conflitto a causa della sua "lotta all'ipocrisia", infatti circa dieci anni fa viene trasferito per due anni in un' anonima cittadina vicina al mar nero, Kastamonu. Considerato pericoloso e sovversivo perché aveva fondato il primo sindacato della zona, diviene figura carismatica e combattiva per il suo popolo al prezzo di una lontananza dalla propria famiglia. Per due anni infatti tutti vivono distanti gli uni da gli altri, il padre nell'anonima cittadina, la madre rimane a Diyarbakır, e Baran va a Bursa per il liceo.

Anni non facili la cui evoluzione però, è migliore dell'inizio. Infatti il vento politico a Diyarbakır cambia, il partito dei curdi, a quel tempo DEHAP, poi bandito dalla corte costituzionale e dalle cui ceneri nel 2005 nasce l'attuale DTP, vince le elezioni locali, il padre può tornare e lavorare, la famiglia si riunisce sotto lo stesso tetto. Nadir Birgol infatti torna a lavorare per una municipalizzata di Diyarbakır, la municipalizzata dell'acqua pubblica per cui realizza un ambizioso progetto, un grande acquedotto per offrire in quantità acqua corrente, che ancora scarseggiava, agli abitanti della sua città. Una goccia di benessere, apprezzata enormemente dalla popolazione che proietta il padre di Baran nella carriera politica, fino a farlo diventare sindaco della sua città natale, Ergani, nella stessa regione.

Nel frattempo Baran superate le crisi adolescenziali, i dissapori con il padre per la sua "lotta all'ipocrisia", per la quale tutta la famiglia ha sofferto, cresce, prende posizione e decide di andare ad Istanbul, conoscere il mondo, crescere come persona, conoscere non solo come diritto, ma come necessità.

Per due anni lavora come giornalista per il più importante giornale turco, Zaman, a circa 20 anni raggiunge l' indipendenza economica, una propria vita ad Istanbul, e il mondo sembra stare ai suoi piedi. Ciononostante non è ciò che Baran necessita e cerca, in una vita in cui apparentemente ci sia tutto, in realtà manca di qualcosa. Infatti dopo due anni decide di tornare agli studi, la Galatasaray Universitesi, perfeziona il francese, diventa fondatore e gestore del club erasmus nella sua università, fino poi a fondare con altri amici la rete di associazioni erasmus in Turchia, l' ESN turco.

Quello di cui aveva bisogno erano le diversità, le aperture, il calore umano, la possibilità di rilassarsi per trovare pacificamente la propria strada, abbassare barriere per poter meglio scrutare l'orizzonte, per poter meglio guardare la faccia di chi si ha davanti. Quello che mancava era una vita da studente nel senso più edificante della parola, anni di formazione, anni di libera crescita, anni di vera vita. Abbandonare la ricerca di una migliore produttività e di un qualche status di realizzazione personale, per allungare la notte, per contemplare senza il bisogno di agire.

Può rilassare le proprie barriere, irte per difesa, per necessità, e dissolvere i propri tabù. In questi anni scopre quanto sia bello aprire la propria identità, condividerla e contaminarla. O forse scopre quale sia la sua vera identità, il pericolo di vivere in costante difesa del proprio stile di vita è che quello diventi l'unico immaginabile, il solo da perseguire, quello giusto da realizzare. In difesa di se stessi si rinuncia a se stessi, a tutti i potenziali io da realizzare. Fortunatamente le protezioni di Baran vengono sciolte non a caso da una ragazza, francese, che diventerà ed è tutt'ora la sua ragazza. La sua prima ospite erasmus, "Vaso", l'inizio di un cambiamento.

Baran spende gli anni dell'università circondato sempre da yabanci, stranieri che fa sentire a casa, con cui condivide amicizie, relazioni e progetti. Ha finalmente specchi diversi in cui riconoscersi, riconosce l'inutilità di barriere e divisioni, sogna un mondo, un' Europa senza confini di cui la Turchia possa far parte, lui cresciuto tra posti di blocco e repressioni ne rigetta la violenza e riconosce l'importanza della conoscenza reciproca. Denuncia la totale ignoranza con cui i cittadini turchi affrontano, o meglio decidono di non affrontare la situazione curda, con cui sminuiscono il problema. Baran è diventato così propositivo e costruttivo perché ha rigettato l'idea del muro, ha riconosciuto l'importanza del confronto, la bellezza di scoprirsi, la necessità di specchiarsi.

La conoscenza genera il dialogo e da esso è generata, la curiosità e la bellezza che l'attraggono diventano le migliori forze su cui far leva per avvicinarsi, la conoscenza è un diritto, è un dovere, un' imposizione, un bisogno, conoscere e far conoscere è il miglior modo per instaurare un dialogo, il dialogo è il miglior specchio che abbiamo. Anche se si proviene da una condizione di repressione e chiusura un contesto aperto dissolve gli assoluti e permette a chiunque di essere redento.


1 commento:

Unknown ha detto...

Questa storia e' bella e complessa, ci sarebbero tante cose da dire. Per ora solo che vi immagino a chiacchierare nel sole e nel caldo turco in terrazza..bella immagine.

D