In questi ultimi giorni non mi poteva sfuggire l'ultima discussione avvenuta tra Baricco e Eugenio Scalfari sulle pagine di Repubblica. Una lettera indirizzata dal primo al secondo, fondatore ed ex direttore del quotidiano, in cui si discute di "Barbari e Imbarbariti".
La tesi di Baricco è sempre la stessa espressa nel suo libro "I Barbari" che mi ha fornito tanta ispirazione da scrivere ben quattro post: qui, qui, questo e quest'altro.
E' comunque interessante vedere l'autore tornare sull'argomento a distanza di anni (il libro è stato scritto nel 2006) perchè ho l'impressione che si sia addolcito e che il tono apocalittico abbia lasciato il posto a più misurate e precise osservazioni come appunto la differenza tra "Barbari e Imbarbariti".
Traspare, ma forse è solo una mia impressione, una maggiore positività verso il futuro che si sta costruendo (e quindi non distruggendo):
E sulla distinzione tra "barbarie" e "imbarbarimento":
Insomma rispetto alle argomentazioni portate avanti nel libro in maniera abbastanza intuitiva e approssimativa ecco che appare una fondamentale distinzione che separa le cose meritevoli del "radicamente nuovo" dagli "scarti chimici" prodotti da tutte le sottoculture di tutte le civiltà nei secoli dei secoli.
Quindi ai Barbari finalmente viene riconosciuta un'intelligenza creativa e dirompente e non si usano quelle che potremmo definire "conseguenze inintenzionali" per criticare quella stessa idea innovativa che le ha generate. Si tenta di sanare anche la dicotomia tra superficialità e profondità, filo conduttore del suo ragionamento, ripensandone la definizione stessa:
" [il sistema di pensiero dei barbari] Non elimina il senso, ma lo ridistribuisce su un campo aperto che solo per comodità definiamo ancora superficialità, ma che in realtà è una dimensione per cui non abbiamo ancora nomi, e che comunque ha poco a che fare con la superficialità intesa come limite, come soglia inattraversata del senso delle cose, come facciata semplicistica del mondo. In un certo senso potrei dire che il mondo di pensiero in cui si muove Steve Jobs (e mio figlio, 11 anni) sta a quello in cui siamo cresciuti noi due come il firmamento di Copernico sta a quello di Tolomeo (peraltro erano inesatti entrambi); o come Emma Bovary sta ad Andromaca".
Non sarà forse lui a trovare le parole giuste, e nemmeno noi, forse i posteri quando il fenomeno sarà pienamente istituzionalizzato e assimilato, quando saranno diffuse e capite le parole nate con la forza dell'aderenza.
Ma quale che siano queste nuove parole, comunque, noi qualcuna l'abbiamo già proposta, HcGeneration.