Frontiere, confini. Spazi creati per dividere e non per unire. L'artificiosità di una frontiera politica risulta evidente nel momento in cui attraversi paesi privi di vere e proprie barriere naturali. Il territorio non cambia in maniera improvvisa, il paesaggio è uniforme, le usanze nella zona di frontiera sono simili, il cibo è identico, simile è il rapporto con il territorio. La cultura come insieme di pratiche e di conoscenze è la stessa, quel che cambia oltrepassando una frontiera sono le regole e le leggi di quel paese, la lingua, sebbene allontanati solamente di qualche chilometro, ovvero le sovrastrutture, per utilizzare le parole di Pasolini, ma le facce, no quelle sono le stesse.
E' così per molti luoghi di frontiera. Tra il Portogallo e la Spagna si prende coscienza di aver attraversato un confine solo dopo molti chilometri, solo nel momento in cui senza guardarsi alle spalle s'incontra l'Oceano davanti a sè. Frontiere evaporate. Antichi retaggi storici. Rinunciare alla frontiera non vuol dire rinunciare alla differenza, la frontiera, la demarcazione, è necessaria per stabilire una giurisdizione, per delimitare il territorio che rivendica la propria autonomia. Ma questo non vuol dire che debba rimanere chiusa. Una frontiera può benissimo rimanere aperta, sino quasi a scomparire.
Frontiere come arma politica: stabilire cosa sia legale e cosa non lo sia, cosa sia imposto dal potere della maggioranza alla minoranza. Cosa si possa fare e cosa no. Frontiere cancellate per inglobare, per dimenticare, per creare un'identità totalizzante, come tra Turchia e Kurdistan. Frontiere perfettamente verticali, ortogonali, come in tutto il continente africano, frontiere arbitrarie come tra il Marocco ed il Sahara occidentale, imposte come tra Israele ed i territori palestinesi.
Le frontiere politiche sono solo un aspetto della divisione, della chiusura, della parcellizzazione di territori arroccati, isolati e difficili da raggiungere. Perchè manca un aeroporto internazionale, perchè Ryan Air ancora non ha messo uno scalo, perchè il treno finisce ad Eboli, perchè esistono territori ancora chiusi, perchè aprirsi è un processo talvolta lento, spesso non capito, o peggio non voluto. Quando si vuole che i territori restino fonte di potere, quando i territori devono legittimare il controllo del potere.
Le frontiere sono anche politiche, ma il più delle volte linguistiche, economiche, culturali, geografiche. Tuttavia in un mondo che corre più della politica, annullando gli ostacoli pratici, questa diventa una palla al piede piuttosto che una spinta al cambiamento. Generazioni pronte a qualsiasi incontro, formatesi in più campi, a qualsiasi scambio, che hanno superato barriere economiche, linguistiche e culturali cozzano contro quelle politiche. Giovani pronti a trasformare i propri territori in territori aperti, maturati con l'idea di apertura e condivisione, sono limitati da chi è più lento di loro, da un visto, dal permesso di soggiorno, dal fatto di non avere un passaporto europeo.
Ma i flussi migratori sono forze che non si possono fermare.
Contrastarle a tutti i costi è
controproducente, avvilente, alimenta il razzismo, il pregiudizio e la diffidenza, rappresenta un tradimento del
nostro passato, delle nostre sventure. Pianificare l'invasione, gestire i flussi, sanare situazioni di fatto, assume spesso il colore della rabbia alimentata da impotenza, o il colore atono dell'ipocrisia: illudere di gestire dinamiche che in realtà sono
incontrollabili. Erigere moderne muraglie cinesi è futile, quanto mettere una porta al mare.
La velocità del processo di migrazione è altissima, quanto un giro di giostra che ogni anno muove milioni di persone, viceversa l'
integrazione e l'accoglienza saranno processi lenti, vivi nei figli dei figli, e ancora per generazioni, anche se il destino è già segnato. Già si sa. Sono più motivati, più giovani, con più forza, con più figli. Hanno di più, come i nostri venti milioni di emigranti dalla storia italiana. Stanno già vincendo e non lo vogliamo capire, e se vincono loro,
vinciamo tutti.
Perchè creare degli invisibili, valutarli criminali per il semplice fatto di aver viaggiato, di aver lasciato casa, terra, cultura, lingua e famiglia per una vita migliore, non è
condannabile. Come condannare semenza che attecchirà su un terreno più fertile.
La nostra comunità politica ed economica che è l'Europa, è arrivata ad abbattere le frontiere interne quando queste sono diventate palesemente inutili, anzi dannose. Quando la caduta di quelle reali ha mostrato il ritardo di quelle politiche. Ma nell'annullare barriere vecchie, ne rincorriamo di nuove, alziamo nuovi confini domandandoci fin dove dobbiamo o possiamo arrivare. Annullando le barriere interne ne ereggiamo di maggiori, ma esterne, per isolarci, difenderci? Creando un'apposita agenzia europea di controllo delle frontiere, esternalizzando le politiche migratorie e tutte le rogne a paesi di emigrazione e ora di transito, ignorando le convenzioni internazionali, cercando di sbarazzarci del problema.
Ma un processo migratorio è una condizione di vita, spesso una condanna. Processi personali che non terminano anche dopo decine di anni, dopo l'uscita dall'oscurità, dopo il lavoro, la cittadinanza, i figli, e forse non lo saranno mai. Illudersi di mettere barriere è come illudersi di isolarsi pur avendo bisogno degli altri, uno spreco di risorse e di tempo che potrebbero essere utilizzate per gestire i flussi, prepararci ad integrarli, cavalcarli.
Frontiera è un concetto complicato, complesso, sempre dalla doppia faccia.
Dalla doppia morale. Vivere senza frontiere oggi, vuol dire viverle in maniera naturale,
innanzitutto.
Perchè più ci si incontra e più appare banale la pochezza della frontiera reale.
Perchè in territori aperti non esiste più la sovranità, l'imposizione dall'alto, ma l'autonomia e l'
autodeterminazione dei popoli. Per arrivare a mondi senza fonti di potere, per arrivare alla situazione in cui nessuno ci debba governare.
Perchè anche oggi viviamo tentando di superare concetti
anacronistici che ci vengono
ripresentati in altre forme ed essenze, non più la frontiera da difendere, la chiamata alle armi, ma la sicurezza personale, non la guerra, ma l'aggressione preventiva. Sempre in ogni caso un nemico comune da sconfiggere, un capro espiatorio esterno che si ripresenta con nuove corna, mentre in realtà, in queste guerre, rincorriamo solamente noi stessi.
Perchè oggi
si vive così. Si vive quella differenza naturale che sorge
spontaneamente in tutti i territori, come una legge dei grandi numeri e delle distanze, come un miracolo della natura, come una fonte che alimenta tutte le società che scorrono l'una verso l'altra, che
interagiscono l'una con l'altra. In maniera graduale, costante. Rendendo difficile, a volte impossibile, uno schiacciamento dall'alto, rigettando l'idea che non abbiamo niente in comune con i popoli vicini,
riaffermando il concetto che sono più le cose che ci accomunano che quelle che ci dividono. Uomini tra uomini. Di nuovo, rincorrendo l'altro che ci attende, casomai
oltrepassando una frontiera.